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Certo essi [i medici dei manicomi] non saranno tutti buoni chirurghi, ma saranno sempre delle menti elette, dei nobili cuori che potranno dare utilità di soccorso e soprattutto sapranno l’arte di sollevare gli spiriti, di fare una vera e propria psicoterapia d’occasione.
Ma non possiamo tacere che l’opera loro non è utilizzata come si potrebbe e dovrebbe. Accanto ai traumi materiali, la guerra produce, non meno frequenti e temibili, dei traumi morali. Tutti noi abbiamo già visto come molti dei militari internati nel manicomio non siano che dei neuro-traumatizzati, degli isterici che il terrore ha reso muti, dei candidati alla neurastenia che il disagio fisico ha condotto in attualità di nevrosi.
Or perché i medici di manicomio non dovrebbero subito in un primo tempo occuparsi di tutti questi infelici? Perché un indugio che presto o tardi li condurrà al manicomio, in un luogo che non è loro adatto e da cui possono attingere nuovo danno morale?
A chi è in alto la divulgazione di queste povere ma pratiche idee che già hanno avuto applicazione felice a Treviso, ad Alessandria, a Novara ove direttori e sanitari sono addetti a speciali reparti psichiatrici militari. Come quivi è già avvenuto perché anche in altri centri non s’instituiscono, d’accordo con la Sanità militare o con la Croce Rossa civile, servizi medici specializzati a ciò?
Finora si è provveduto all’assistenza psichiatrica istituendo i consulenti psichiatrici, i quali sono cinque in tutto, uno per ogni armata, con percorsi che alle volte oltrepassano i cinquecento chilometri e perciò potrebbero meglio essere chiamati corrieri automobilisti psichiatri. La funzione loro è molto enigmatica e il risultato pratico abbastanza incerto.
La Redazione
Fonte: Bollettino dell’Associazione tra i Medici dei Manicomi pubblici italiani, agosto-settembre 1915, pp. 49-50