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LINDA HANSON

Linda Hanson è un’artista tutt’altro che inconsapevole e la sua esperienza si avvicina solo in parte a quella degli altri creatori autodidatti, che si dedicano a produzioni artistiche autonome, di cui si può leggere in alcuni interventi relativi a questo progetto. Tuttavia, sono due le ragioni per cui è sembrato opportuno inserire una descrizione del suo percorso all’interno di questa cornice.

Una delle motivazioni è strettamente correlata alla natura specifica della ricerca esposta in questa sede: trattandosi di una ricognizione realizzata nell’area della provincia di Bologna, mirata all’individuazione dei centri e delle istituzioni del territorio aperte ad interventi di tipo artistico nell’ambito del disagio mentale, la vicenda di Linda ha suscitato subito il nostro interesse proprio perché gran parte dei suoi lavori sono stati realizzati all’interno di Casa degli Svizzeri (struttura residenziale con funzione terapeutica e socio-riabilitativa che opera in convenzione con l’AUSL di Bologna), dove, da alcuni anni, gli operatori hanno permesso all’artista di convertire uno degli ambienti dell’edificio nel suo studio.

La seconda motivazione, che ha senza dubbio un’importanza maggiore rispetto alla precedente, risiede nelle modalità piuttosto particolari attraverso le quali Linda Hanson ha maturato il proprio linguaggio visivo.

Sebbene in passato abbia seguito le tappe di una formazione tradizionale e si sia diplomata con successo all’Accademia di Belle Arti di Bologna, l’artista sostiene di essere riuscita ad acquisire la libertà di lavorare seguendo le proprie inclinazioni più autentiche solo dopo essersi allontanata dall’ambiente accademico. A suo parere, gli input provenienti da docenti e compagni di corso, nonostante avessero un valore positivo poiché innescavano confronti con punti di vista diversi, nel complesso provocavano un effetto ‘inibitorio’ sullo sviluppo delle sue ricerche; quasi come se la moltitudine di stimoli, in cui Linda era immersa durante i primi tentativi artistici giovanili, si trasformasse puntualmente in un elemento che la distraeva dagli obiettivi originari che animavano i suoi progetti. Le influenze esterne e il parallelo costante con la produzione altrui, infatti, avevano un peso tale da condurla a ricalcare modelli spesso troppo distanti dalle sue intenzioni iniziali.

Concentrandosi sulla produzione più recente, realizzata nel corso degli ultimi quattro anni, notiamo il susseguirsi di tappe, che hanno condotto l’artista ad intraprendere un percorso segnato da un distacco graduale rispetto all’iniziale sviluppo tridimensionale delle opere e, giunto ad un ritorno al più consueto supporto della tela, che contrassegna, seppur con modalità particolari, la tendenza rintracciabile nelle nuove creazioni.
Le prime immagini, visibili nella galleria che integra questo testo, mostrano delle vere e proprie installazioni: si tratta di lavori che, dal punto di vista prettamente fisico-spaziale, sono caratterizzati da un’estensione a tutto tondo, quasi sempre progettati per essere collocati a terra, prevedono che lo spettatore possa fruirli da una moltitudine di prospettive e punti di vista.

Esemplificativa in questo senso la composizione intitolata Auschwitz, realizzata utilizzando due supporti per bobine, della rete metallica, del filo di rame e una lente d’ingrandimento.

D’impostazione simile anche un’installazione che presenta, non senza una certa ironia svelata dalla scelta peculiare dei materiali, un agglomerato di stereotipi riferibili alla condizione femminile: usando come supporto un asse da stiro, l’artista ha delineato, con una vernice spray rosa sgargiante, il profilo del corpo di una donna, il contorno è delimitato da un insieme di minuteria metallica e coronato da una fluente parrucca bionda, su cui spiccano le maglie di una pesante catena, quasi a simbolizzare la situazione di costrizione in cui vessa la figura femminile. Impossibile non notare una certa affinità con le sagome disegnate sulle scene dei crimini, enfatizzata anche dalla collocazione orizzontale dell’assemblage, disteso sul telo di copertura dell’asse da stiro, che per l’occasione sembra quasi assumere la funzione sarcastica di un sudario.

Proseguendo nella carrellata di immagini che documentano l’ampio repertorio di opere prodotte da Linda, ci troviamo di fronte al successivo slittamento verso soluzioni più ancorate alla superficie piana della tela; sebbene permanga l’impiego di elementi insoliti, questi vengono innestati su supporti lineari e accompagnati da interventi pittorici non figurativi.

Entrambe le tipologie di lavori sono accumunate dall’uso di materiali di scarto che, come spesso accade nel panorama outsider, gli artisti rimediano casualmente; in questo caso specifico si tratta di pezzi di macchinari elettrici e elettronici che Linda era solita recuperare in una piattaforma ecologica, situata nella vicinanze della struttura dove abitava.

In questo frangente risultano decisamente interessanti anche le tele dove, accanto a dei più consueti colori acrilici, l’artista dipinge adoperando pigmenti, tradizionalmente destinati a mettere in risalto determinate sostanze durante le analisi al microscopio. Linda, che parallelamente alla passione per l’ambito artistico, ha da sempre coltivato un interesse per il settore chimico-scientifico, lavora come tecnico di laboratorio e spesso, spinta da un curioso impulso verso la sperimentazione, riutilizza per le sue creazioni gli agenti chimici scaduti a cui ha accesso nell’ambiente professionale.

Un’altra serie, in cui ricorre la presenza di particolari tridimensionali, è caratterizzata dal motivo costante della croce, simbolo esplorato per un periodo piuttosto prolungato, sia mediante la sua resa pittorica che attraverso trasposizioni più tangibili. E un minuscolo crocefisso, nella versione più propriamente assimilabile all’iconografia cristiana, è incastonato anche all’interno del frammento di una cornice di stile barocco, posta a fianco ad uno dei rari esempi di autoritratto dell’artista, realizzato in forma di fotomontaggio grazie alla tecnica del collage.

Il processo di progressivo abbandono della tridimensionalità corre di pari passo ad un allontanamento sempre più marcato da ogni residuo figurativo. Nell’ultima , realizzata ad un ritmo incalzante nell’arco di poche settimane, Linda, che inizialmente mantiene una certa incursione nella terza dimensione, applicando fogli di giornale e strati di materiale tessile sulla tela, successivamente coperti da uno strato di colore spray metallizzato, giunge poco a poco ad una totale ‘scarnificazione’ delle sue creazioni. Infine, rinunciando a qualsiasi declinazione cromatica Linda Hanson opta per le tonalità dell’avorio, con cui riveste una sequenza di lavori quadrati di piccole dimensioni che al primo sguardo possono sembrare bidimensionali, ma in realtà continuano a racchiudere uno sconfinamento nello spazio: l’artista infatti lacera la stoffa bucandola e strappandola con un chiodo, la materia quindi si espande nella dimensione della profondità, la terza dimensione però viene ‘aggredita’ e il suo sfondamento in questo caso si rivolge all’interno, non più verso lo spettatore, ma nella piccola sezione compresa tra il telaio e il muro.

Marta Cannoni

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