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Assemblages

All'interno della “Scuola d'Arte" del Roncati, situata nella corte dell'omonimo ex Ospedale Psichiatrico, le attività creative che venivano svolte dai pazienti erano molteplici e non si limitavano alla sola pittura. Si dava infatti agli utenti la possibilità di eseguire sculture in terracotta grazie all'acquisizione di due forni, collocati al piano terra dell'edificio indicato per ospitare la scuola, dove attualmente risiede il Centro Diurno C.A.S.A.
Mentre numerosi calchi di piccole teste in gesso erano funzionali alla realizzazione di burattini, parti delle sculture in terracotta e lavori in cartapesta venivano inseriti negli assemblages: composizioni collettive eseguite negli anni ottanta, periodo in cui la conduzione della scuola d'arte era affidata a Gildo Monaco.
Ad essere utilizzati per comporre questi lavori erano anche altri materiali di scarto provenienti dalle botteghe artigiane che occuparono i locali attorno al secondo cortile del Roncati e prevedevano una sartoria, una falegnameria e una bottega dedicata alla lavorazione del ferro.
Piccoli corpi di plastica (in parte visibilmente fusi ed informi), legati a una griglia metallica o posti seduti invece sono i residui delle attività ergoterapeutiche ampiamente praticate nell'Ospedale fino a tempi recenti. Una di queste prevedeva che i pazienti s'impegnassero al lavoro di montaggio di giocattoli commissionato dalla fabbrica bolognese Querzola.

Gli assemblages, termine utilizzato per la prima volta nel contesto delle arti visive da Jean Dubuffet, agli inizi degli anni cinquanta, sono il frutto di una pulsione creativa spontanea, sia per quanto riguarda il lavoro non premeditato di composizione, sia per la scelta inusuale di materiali e oggetti fabbricati a cui comunemente non viene attribuito alcun valore artistico.
Ricorrendo alla definizione della storica dell'arte Bianca Tosatti, sono opere “irregolari” per il fatto di non essere conformi a norme o indirizzi stilistici.

I lavori, non solo si ricollegano al concetto di art brut, in quanto realizzati da pazienti dell'ospedale psichiatrico che operano al di fuori di norme estetiche convenzionali, ma ricordano la figura di Robert Rauschenberg e i suoi combine-paintings, con cui l'artista statunitense vicino alla pop-art siglava l'unione fra oggetti quotidiani, materiali insoliti e pittura.
Il procedimento con cui vengono creati rimanda invece direttamente al principio di spontaneità e al rifiuto della logica delle teorie surrealiste. Non è un caso che la libera espressione dei malati mentali avesse, già negli anni '20, influenzato e impressionato i surrealisti, tanto che André Breton, nel manifesto del 1924 che suggella la nascita ufficiale del movimento, fa riferimento ad un “automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”.

Davanti agli occhi ci appaiono le creazioni più bizzarre: una torre di oggetti dipinta di blu, dominata dalla figura di un frate in terracotta, ospita al centro della composizione una maschera in cartapesta dal lungo naso che evoca una delle più famose maschere della commedia dell'arte, Pulcinella. I piani della struttura sono scanditi dai resti della tastiera di un computer, di cui rimangono ben visibili le lettere e i meccanismi di funzionamento.
Una maschera realizzata in cartapesta appare invece come un'opera dal gusto mitologico, che ricalca i tratti somatici di un indigeno, incoronata da tubi mobili di plastica. Essa appoggia su un supporto di colore nero e mostra rigoli di vernice rossa che richiamano l'idea del sangue. L'effetto inquietante di una rappresentazione demoniaca risulta smorzato dall'innesto di un mazzo di fiori posto all'estremità di uno dei tubi e dalla pulsantiera del telefono sospesa a una griglia circolare, entrambi oggetti che evocano una sensazione familiare di quotidianità.

Non manca un lavoro dai forti connotati simbolici: un abito, incollato su un supporto di legno, dipinto con toni vivaci, tinte di giallo, rosso e blu. E' un richiamo alla voglia di uscire dalla condizione d'isolamento manicomiale, non più la camicia di forza ma “il vestito più bello”, quello della “domenica”, giacca, cravatta e pantaloni, che diventa un totem di buon auspicio per il ritrovamento della libertà fisica e psichica.

Chiara Delledonne