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Giotto

Anche se per motivi ancora da chiarire diversi disegni di Luigi G., detto Giotto, sono conservati a Bologna, la sua vicenda creativa è legata a Imola, al laboratorio espressivo all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Luigi Lolli.

Su Giotto, a differenza di molti internati, le informazioni sono numerose: un video di repertorio lo coglie assieme ai suoi colleghi dell’atelier nell’atto di dipingere; a ricordarlo sono poi gli articoli a firma di Gastone Maccagnani e Jean Bobon sulla Psicopatologia dell’espressione. Scorrendoli, si desume che la sua produzione grafica – iniziata all’inizio degli anni trenta, a pochi anni dal ricovero in manicomio e coltivata per trent’anni – fu ampissima, incentrata su soggetti sacri, principalmente crocifissi ma anche madonne e santi, e che dopo un trattamento a base di psilocibina l’autore smise quasi totalmente di disegnare.

Gli psichiatri Maccagnani e Bobon, intenti a sviluppare la loro teoria dell’espressione plastica come linguaggio, riconducevano i soggetti di Giotto alla categoria degli “stereomorfismi”, forme fisse e ripetute spesso dotate di un significato latente.

Ed effettivamente l’iterazione è un tratto caratterizzante anche le opere conservate oggi presso l’Istituzione Minguzzi, lavori che contemplano principalmente santi e madonne. Ripetuti non sono però solo i soggetti bensì la stessa struttura compositiva dei disegni. Nel caso della serie delle madonne, la figura della Vergine si dispone sempre al centro del foglio con il bambino in grembo; in alto una dicitura identifica il personaggio e nella parte inferiore compare una lampada ad olio. Assetto altrettanto stereotipato è quello delle immagini riferite ai santi. Al centro una tavolozza da pittore fa da cornice alla sagoma di un personaggio simile ad un santo in maestà. Sotto si inserisce l’indicazione di un ordine religioso, sempre diverso in ogni disegno, e denominato in base alla provenienza geografica (“santi abruzzesi”, “santi egiziani”. .), alla categoria professionale (“santi aratori”, “santi condottieri”. .) o a titoli fantasiosi (santi santificatori); occupa infine la fascia inferiore un arabesco, una decorazione con elementi ripetuti, in cui si distinguono fiori, panieri, calici, ghirlande oppure piccole figure inserite tra archetti.

È l’araldica il settore che sembra ispirare Giotto: come negli scudi o stemmi gli elementi delle sue composizioni infatti si ripetono e si dispongono secondo schemi convenzionali. Se alcuni degli sfondi della serie delle madonne presentano il tipico motivo “cancellato” di alcuni scudi, nei disegni dei santi i riferimenti sono più espliciti. Pugnali, stelle, croci, ferri di cavallo, stendardi e schiere di angeli evocano un immaginario consolidato, mentre allo stesso tempo emergono elementi nuovi, d’invenzione, oppure parzialmente modificati rispetto agli originali, come la luna crescente che ostenta una pipa e la papalina. Nel complesso l’effetto è quello di uno stemma dentro lo stemma, dove il maggiore coincide allo spazio delimitato dal margine del foglio e il più piccolo all’ovale rappresentato dalla tavolozza su cui spicca una figura umana in abito monacale accanto ad una torre. L’aureola di questo personaggio reca un’iscrizione con il nome Giotto seguito da quello di un santo che varia in ciascuna rappresentazione. Difficile non cogliere nella contiguità stabilita tra i due nomi un qualche desiderio da parte dell’autore di suggerire un legame, se non un’identità. In questo caso la figura stessa dell’uomo in saio potrebbe leggersi come sigla del santo-artista. Di questa ipotesi la storia dell’arte offre del resto conferme, perché non è raro che gli autori si rappresentino come esseri divini e neanche che ricorrano all’autoritratto utilizzandolo come firma visiva alla propria opera, secondo una pratica non inconsueta nella pittura del Quattrocento italiano.

Sara Ugolini