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Tonino D.

Solo alcuni dei disegni di D. descrivono oggetti immediatamente riconoscibili: sono quelli che mostrano recipienti, vasi, bottiglie e bicchieri, riempiti o meno di fiori e piante. D. frequenta il laboratorio condotto da Gildo Monaco e i lavori oggi conservati fanno pensare, più che ad un repertorio ampio di soggetti, alla ripetizione di elementi-base, orientati verso una graduale semplificazione geometrica.

Un intento di schematizzazione si rivela dunque nell’opera dell’autore. Lo testimonia il disegno di un fiore ridotto ad una superficie sinuosa e lobata e ancora la descrizione, presente in diverse versioni, di una casa in un paesaggio. Se in un foglio il soggetto tende al naturalismo, per quanto ingenuo, altre volte è decisamente stilizzato fino a coincidere ad una struttura frastagliata in cui si dispongono aperture/finestre mentre un arco colorato di verde simula il profilo di una collina.

Ad un analogo processo di sintesi fanno pensare anche le numerose immagini singole, che mostrano forme irregolari chiuse dai contorni curvi e retti, il cui interno è colorato in modo uniforme. Il significato di queste configurazioni si palesa in alcuni fogli in cui esse trovano spazio assieme, combinandosi e allineandosi su diverse righe. È una scrittura che sembra prendere forma, un linguaggio originale e apparentemente inaccessibile a cui vanno ricondotti anche i neologismi “ariol” e “profol” presenti accanto ad una delle tante forme astratte dell’autore.

D. redige quindi i segni di un codice segreto come a loro tempo fecero Francis Palanc ed Emmanuel, e più vicino a noi, Fernardo Oreste Nannetti, autore di un criptico “libro di pietra” inciso sulla parete di un cortile del manicomio di Volterra.

Del resto, nel corso del Novecento, con l’idea di una scrittura immaginaria si sono misurati numerosi linguisti ma anche artisti visivi e scrittori, da Paul Klee a Henri Michaux, il quale, complice un viaggio in Estremo Oriente, a più riprese si cimentò nell’invenzione di un alfabeto visivo. A differenza delle sperimentazioni grafiche di Michaux e degli ideogrammi orientali, in cui ogni segno traduce un gesto fluido e veloce della mano, i caratteri di D. sono redatti con più lentezza, differenziando, attraverso l’uso di colori diversi, il contorno dall’interno oppure, come nel caso di alcune lettere descritte singolarmente, sezionando la superficie interna in aree di colore diverso. Pur mantenendo inoltre una sostanziale somiglianza, i suoi caratteri allineati su più righe non si ripetono mai uguali e sono più simili a pittogrammi che a lettere dell’alfabeto. Viene in mente, in particolare, il lavoro di Kandinskij intitolato Successione (1935): una sequenza di sagome colorate, più raffinate di quelle di D. ma ugualmente vitali, simili a ectoplasmi.

Nel foglio che descrive undici caratteri verdi profilati in rosso compaiono, sul lato destro, vari segni di punteggiatura: aste verticali, orizzontali e sequenze di due o tre puntini. Sono gli stessi simboli che D. utilizza, talvolta assieme ad un segmento curvilineo simile ad una parentesi, per tracciare segni somiglianti a occhi e bocche all’interno di alcune sue configurazioni geometriche, le quali, in questo modo sembrano assumere un aspetto animale o umano.

Di fronte all’indecifrabilità di questo alfabeto, costretti quindi a spostare l’attenzione sull’aspetto visivo e sulla dimensione plastica, siamo catturati dalla versatilità delle forme, dalla loro tendenza ad assumere fattezze antropomorfe e quasi ad animarsi, rispecchiando una potenzialità sempre latente nella scrittura.

Sara Ugolini