...E poi? Non avrei potuto in quell’ambiente, vicina a dei medici, a degli insegnanti specializzati, imparare molto di ciò che mi appariva uno studio interessante della psiche umana?...
L’Istituto Medico Pedagogico Emiliano era situato f. porta Lame, in una delle zone meno attraenti della città. Ma era primavera, quella domenica, e anche la monotona pianura aveva del verde, del sole […] Dopo vari giri in un viottolo tortuoso (abbandonata la via maestra) ci trovammo ad un ampio cancello, con una portineria tipo chalet, e un bel viale fiancheggiato da aiuole fiorite. Si presentò a riceverci nel salone di una bella villa antica, il direttore amministrativo che seppi poi essere il proprietario Sig. Socrate Gardini. Aveva già parlato col prof. Serrazanetti che mi aveva presentata con così calde parole per cui egli era già disposto ad assumermi, ma io sarei dipesa da lui soltanto per la parte materiale. Per tutto il resto avrei dovuto dipendere dal Direttore Medico prof. G. C. Ferrari e dal suo assistente dott. Umberto Neyroz. Alla domenica il Direttore veniva soltanto al mattino: avrei quindi potuto parlare con l’assistente che fece chiamare e a cui mi affidò per la visita dell’Istituto. Così conobbi lui. Alto, magro, bruno con due grandi occhi grigio-azzurri, un quieto sorriso, un parlare lento, quasi timido. Visitammo dormitori, refettori, le scuole – strane aule con pochi banchi, appoggiati tutti lungo le pareti (perché è più facile aiutare l’alunna durante un accesso epilettico!) un materassino arrotolato in un angolo (perché di solito non è necessario far trasportare in infermeria l’alunna colpita da accesso – c’è chi à accessi brevissimi ed è breve anche lo stato confusionario – in ogni modo l’infermiera è sempre nel corridoio, pronta ad accorrere). Queste erano le informazioni che, con voce grave e un timido sorriso, il medico dava a una povera maestrina che non aveva mai saputo che cosa fosse epilessia, che aveva assistito soltanto una volta, in vita sua, ad uno svenimento e si era sentita morire dall’angoscia […] – E le bimbe ammalate, chiesi ad un tratto, dove sono? –
Erano alla passeggiata, lungo una cavedagna che portava al Reno. Andammo incontro alle bambine … Lunghi grembiuloni, grossi scarponi … e visi … oh! Quei visi senza luce, senza bellezza! E quelle voci, quasi tutte roche, quei linguaggi con pronunce diverse, scorrette … In fondo alla fila ce ne erano sette od otto dai 14 ai 15 anni, alte, bei visi, bei sorrisi, quasi eleganti anche nei brutti grembiuloni. - E quelle? Chiesi al medico – Ma quelle non sono malate, non sono epilettiche. Sono … diremo che sono epilettiche morali … Ragazze difficili da guidare, da correggere. Sono quelle che hanno più bisogno di sorveglianza, di pazienza e di affetto. […]
Avvisai mio padre, avvisai l’Ufficio di istruzione, mi staccai dalle maestre e dalle scolare della Scuola, feci una visita di ringraziamento e di congedo al Prof. Serrazanetti, salutai gli Ambrosi, le Gnudi, i Raimondi, andai al Cimitero a pregare mia madre, e il 4 maggio 1904 entravo nell’Istituto Medico Pedagogico Emiliano. […] Impressioni profonde! Duro tirocinio! Vive esperienze!
Ebbi subito una bella cameretta, azzurra, a stelle: non erano che letto e comodino, un tavolino e un armadio, ma io non avevo mai avuto una camera per me e ne ero consolata: nell’ambiente sconosciuto, vario, affollato di persone diverse per educazione e mentalità, quella cameretta era come un’oasi di pace, mi assicurava una solitudine che avrei certo desiderata nel gran movimento di quel piccolo mondo tanto diverso da quello che avevo lasciato.
La mia camera era intercomunicante con un’altra più ampia, dove dormiva la maestra Veronesi con una ammalata, una ragazzetta di 15 o 14 anni che mi stupì per il bel volto buono e nessuna apparente anomalia; ma presto imparai a distinguere … A scuola conobbi quel giorno stesso l’ispettrice Nerina Ugolini, orfana d’un medico, una grossa donna […] rossa in viso, con una voce … tenorile che dominava tutti: seppi (la maestra Veronesi me ne informò subito!) che ella non aveva nessuna autorità sulle maestre e sull’andamento scolastico, ma soltanto mansioni di sorveglianza sulla disciplina della sezione, autorità sulle infermiere, rapporti con le famiglie delle ammalate ecc. C’era anche una vice Ispettrice, la maestra di lavoro, la Maria Monti, una brunetta pallida e fine, quasi sempre silenziosa che posava a ragazza dell’Ottocento, ma dell’Ottocento agli arbori: non era mai stata al Cinema, non era mai stata in treno, ma era orgogliosa di questo e non accettava mai inviti anche da persone amiche per non perdere questa prerogativa che la faceva diversa dalle altre. […] Con noi mangiava pure la Capo infermiera. […] Era una bella donna di oltre trent’anni, alta, bionda, intelligente e furba, simpaticissima. […]
Gli ammalati mi fecero subito una forte, spiacevole, impressione. La pietà, l’affetto, il desiderio di migliorarli, di comprenderli, di studiarli, la tenerezza per i più piccoli, vennero dopo; non lentamente, anzi sbocciarono tutti insieme questi sentimenti, dandomi il desiderio vivissimo di dedicare tutta la mia vita allo studio delle anomalie morali e mentali di queste creature e alla loro redenzione. Ma dopo … che ebbi vinto l’orrore, direi quasi la nausea. La causa principale di questa repulsione stava nell’organizzazione e capii subito gli sforzi che facevano i medici per migliorarla, e fui loro solidale. Di quei quattrocento e più ragazzi – tutte le sfumature dall’idiota al semplice epilettico, spesso sano – sotto l’altro aspetto fisico – ed intelligente, non c’erano che due suddivisioni: maschi e femmine. Due belle sezioni, due belle infermerie, due aule scolastiche, di qua e di là. Del resto, epilettici, coreici, isterici, balbuzienti, amorali, tutti insieme! Poi, il vestire! Come nei militari, tre misure, piccoli, grandi, medi. Del resto grembiuli uguali, a quadretti bianchi e blu, di tela tessuta in casa dalle ammalate stesse. C’era un reparto di pensionanti, numeroso quello maschile, scarso quello femminile, ché le famiglie benestanti difficilmente si allontanano una bimbetta minorata: questi pensionanti vestivano con abiti personali e per quanto poco espressivi nel volto e impacciati nelle maniere erano sempre più presentabili.
Il proprietario, sig. Socrate Gardini, ci teneva ad essere chiamato Direttore – amministrativo, diceva – ma questo non era sempre sufficiente a impedire dei disguidi. Era un bell’uomo, sempre elegantissimo in tait o in finanziera, che sapeva nascondere la sua modesta cultura e la sua modestissima origine parlando poco, sempre cortese e sbrigativo. Era un modesto impiegato nel Comune di Persiceto quando, per la legge che voleva allontanati dai manicomi per adulti, tutti gli anormali bambini, il suo paese si trovò a dover affrontare il problema dell’assistenza per minorati psichici in un ambiente diverso. Il Gardini si offrì di raccogliere sotto la sua responsabilità, in una villetta vicino all’ospedale, quegli otto o dieci ragazzi che si dovevano togliere dal Manicomio degli adulti. Un concittadino, Scaramelli, gentile negoziante di mobili, fornì i primi letti, il Dott. Pizzoli prestò le prime cure mediche, la maestra Veronesi, che aveva una scuoletta privata, fu assunta come maestra, dopo un corso estivo a Crevalcore tenuto dal Prof. Pizzoli; una cameriera fu istruita da infermiera con un corso rapido all’ospedale, la sig. Gardini, la sorella sig. na Vedrani, un cugino, tutti di famiglia o del paese, formarono il primo nucleo. Ben presto da altre piccole città dell’Italia settentrionale i Comuni inviarono i loro malati, trovando più economico affidare quei pochi ragazzi al Sig. Gardini che fondare a loro volta tanti istituti del genere. Il Prof. Tamburini, il Prof. Brugia si interessarono della nuova istituzione, necessaria e benefica e convinsero il sig. Gardini a trasportare nelle vicinanze di Bologna il suo istituto. Nel 1904 nel Pedagogico c’erano circa 400 malati, e pochi mesi prima della mia entrata, era stato nominato Direttore Medico il prof. G. C. Ferrari che veniva dal manicomio di Reggio, era stato prima a Venezia e suo assistente il dott. Neyroz che veniva da Roma, dove aveva frequentato, dopo una Laurea ottenuta col massimo dei voti, il corso del Prof. Sante De Sanctis sugli anormali e aver collaborato con lui nella fondazione degli Asili Scuola. […]
Dal prof. Giulio Cesare Ferrari, poco più che quarantenne, piccolo, magro, bruno, scattante, geniale ed ambizioso, io ebbi consiglio, incitamento, stima: egli seppe potenziare al massimo la mia intelligenza e la mia capacità di lavoro. Il dott. Neyroz, credo di origine spagnola (emigrati in Francia al seguito di Napoleone) certo un bel tipo di basco – fisicamente però, ché il suo animo non aveva nulla di guascone! – mi diede l’esempio continuato di amore al proprio lavoro, di un senso del dovere umanitario verso i malati, di devozione alla Scienza, di generosità e di amicizia verso i suoi collaboratori (che lo adoravano).
Mercé loro, e anche per l’acquiescenza della mia collega, appena vinta l’impressione penosa dei primi contatti, potei prendere delle iniziative subito approvate. Per prima cosa, stabilii vari turni, nel mio insegnamento: divisi, e presi in classe, volta per volta, soltanto le epilettiche, poi le isteriche, le tardive, le idiote; anche queste, perché la selezione, nelle femmine, come nei maschi, era semplice: le pulite e le sudice. Queste, spesso anche laceratrici, oltre che sudice, avevano un padiglione a sé, presso l’infermeria ed erano sorvegliate soltanto da infermiere occasionali, senza patente alcuna, ma spesso animate da tanta pazienza e da tanta intelligenza che riuscivano ad ottenere da qualche malata di non strapparsi gli indumenti di dosso e di imparare un orario sì da regolare le loro funzioni.
Ottenuto questo poco, e pur difficile miglioramento le bimbe venivano subito passate nella sezione delle pulite e a frequentare la scuola inferiore di insegnamento oggettivo.
Per ottenere quelle distinzioni (che ritenevo necessarie per avere da tutte un miglior rendimento), annotavo osservazioni diverse, prospettavo mutamenti, turni ecc. e il prof. Ferrari si interessava assai a queste mie annotazioni, tanto che (seppi poi che l’idea era stata del Dottore) consigliò a me e alla Veronesi un diario giornaliero da portare ogni giorno, alla fine delle lezioni, alla Direzione medica. Notai che qualche alunna aveva già imparato con rapidità le prime cose insegnate; che molte epilettiche erano intelligenti e studiose, che le deficienti avevano però tutte molta memoria, una memoria meccanica finché si vuole, ma utile per fissare in loro certe cognizioni indispensabili, e viva in tutte loro la passione alla musica e al canto. Un giorno in cui avevo scritto, parlando di una bambina tanto carina ma con crisi di violenza spesso inattese e ingiustificate «mi pare una epilettica morale» il professore mi fece chiamare nel suo studio, perché descrivessi le crisi, e mi interrogò a lungo su cento cose diverse, dandomi l’impressione di essere sottoposta ad un vero esame. Finì col concludere «l’ereditarietà dell’epilessia è stata scoperta da un’infermiera, sa! Informò lei il medico che i coniglietti nati da quella coniglia, che aveva le convulsioni, erano tutti convulsivi come la madre!»
Care povere le mie scolarette! Le rivedo tutte, ad una ad una. Di ognuna di esse, anche di molte che erano nello scalino più basso, io ho fatto un ritrattino che ai medici parve utile ed interessante. Fra i maestri, di là nell’altra sezione, c’era il sig. Pennazza, un abruzzese pieno di ingegno, chiamato dal dott. Neyroz di cui era stato compagno all’Università di Roma. Il Pennazza fece due anni soli d’Università, poi venne al Pedagogico. Egli svolse la sua intelligente attività parallelamente a me, ma aveva su di me una capacità utilissima all’insegnamento: sapeva disegnare e dipingere! Come gli ho invidiate queste qualità in cui ero perfettamente negativa! […]
Gli ho invidiata, ad esempio, una bellissima iniziativa fra le altre; ogni lunedì mattina, seguito attentamente dai suoi alunni, faceva sulla lavagna una vignetta colorata: poteva essere una bella strada di campagna, tutta verde ai lati di prati fioriti, dove uno stormo di ragazzi correvano: una cadeva, un altro accorreva ad aiutarlo ad alzarsi; due bisticciavano, uno tirava un sasso con la fionda ecc. Tutte le settimane i quadretti cambiavano, e dal lunedì, ogni giorno, gli alunni osservavano sempre meglio le figure, chiedevano spiegazioni, davano un titolo al quadretto: il sabato tutti mettevano in iscritto soggetto, titolo, osservazioni personali. Il maestro Pennazza ottenne con questo sistema di migliorare la capacità osservativa dei suoi alunni, di facilitare il loro esprimersi, di esercitare la loro fantasia. Anche il maestro Bentini escogitò esercizi vari, oltre la semplice ginnastica, per isnellire, alleggerire certe figure tozze, torpide, lente di bambini non deformi ma tutti con andature anormali: corpi ciondolanti, estremità pesanti, disarmonie della persona comuni a tutti i deficienti.
Cari, poveri ragazzi: quello fu uno dei migliori periodi nella vita dell’Istituto: animati dall’attività del direttore medico, sostenuti, incoraggiati, dall’esempio del dott. Neyroz, facemmo tutti a gara perché l’assistenza a questi infelici fosse intelligente e generosa. Quell’ottobre stesso, dopo pochi mesi che ero all’Istituto, presentai una decina di alunni alle Scuole Comunali di Pescarola: le mie scolarette diedero l’esame dalla prima alla seconda; quelle che avevano già studiato con la maestra Veronesi, preparate da me con rapidità e costanza, poterono presentarsi per l’ammissione alla terza. E fu una prova che ebbe esito soddisfacente.
Nel giugno dell’anno successivo, prima di lasciare l’Istituto, un’altra più numerosa infornata di esaminandi con promozione al 90 %. E chi mi sostituì seguì le nostre tracce, con l’incoraggiamento e le direttive del nuovo Direttore, il dott. Umberto Neyroz, succeduto al Prof. Ferrari, passato come Direttore al Manicomio Provinciale di Bologna, in Imola. Per quelle povere figliuole, io restai sempre la Mestranova, ossia la maestra nuova, e così mi chiamarono con affetto commovente anche quando altre maestre – più nuove di me – presero il mio posto e anche quando andai a visitarle come moglie del Direttore e le lasciai giocare con la mia Gabry, poi il mio Mario, poi la Mimma.
Nel 1911 lasciai Bertalia, il piccolo castello che pareva un croccante sulla via di Pescarolo, Umberto lasciò la direzione dell’Istituto, ed io non tornai più a Bertalia che nel 1950, il 9 Maggio, all’inaugurazione della Casa di Educazione per bambini difficili, aperta dal Comune di Bologna nella Casa Bianca, e dedicata al Dott. Umberto Neyroz. Erano passati quasi 40 anni! […]
Quando io lo conobbi, il dott. Neyroz aveva ventisette anni: era alto, magro, con due grandi occhi di colore indefinito; vestiva sempre con molta distinzione, di grigio o di bleu, spesso con tait e calzoni a righe. All’Istituto era sempre in cappa bianca. Aveva sempre un sorriso gentile sulle labbra, ma non lo vidi ridere mai. Ebbi ben presto modo di conoscere come era amato da tutti, dalle bambine che non dimenticava mai anche nelle sue brevi assenze. Quando tornava aveva sempre un dono per loro, da lontano ricordava tutti con un saluto. Fu lui che regalò tutte le figurine per un presepe artistico, che portò da Roma le palle per il gioco del pallone e da Venezia le perle perché le bimbe si occupassero ad infilarle, imparando così i colori, esercitando le mani inabili, calmando certe inquiete nervosità. Egli portò nell’Istituto un soffio innovatore e assecondò sempre prontamente ogni mia iniziativa, ottenendomi col suo appoggio anche l’adesione del Direttore medico e quella ancor più difficile dei direttore … amministrativo. I ragazzi ebbero libertà – naturalmente i più grandi e i più aperti di mente – di uscire soli per due ore, alla domenica. Uscivano in gruppi di tre, perché pensavamo che in due era più facile mettersi d’accordo per andare in posti diversi da quelli permessi. Le bambine le accompagnavamo noi maestre, una volta al mese in città. Per queste gite ottenevamo vestiti un po’ … più eleganti, scarpe più leggere, calze nere anziché colorate ecc. Parlo al plurale perché mi sono sempre sentita accanto, in ogni mia iniziativa, la simpatia e il consenso del Direttore Prof. Ferrari, ma soprattutto l’aiuto pratico del suo assistente. I primi tempi, il nostro contatto di maestre era molto rapido con le autorità superiori. Il prof. Ferrari veniva tutte le mattine in sezione per una rapida visita nell’infermeria e nella scuola, accompagnato dal dott. Neyroz e spesso da giovani medici o da studiosi. Conobbi così il prof. Facchini Valentino, divenuto il fisiologo famoso direttore del nostro Pizzardi, il dott. Creazzo, il dott. Corsio, il dott. Polvani. E Papini, Vailati, molti studiosi stranieri. Il dott. Neyroz faceva da solo la visita del tardo pomeriggio. Ed allora si tratteneva di più, ascoltava la relazione dell’Ispettrice con più attenzione, incoraggiandola anche a riferire e a chiedere come non avrebbe osato alla presenza di Ferrari. E così egli conosceva più profondamente persone e vicende, seguiva i malati in tutte le loro manifestazioni più spontanee poiché appena arrivava gli si buttavano attorno a prendere e a dare una carezza, a chiedere o a dire, senza soggezione.
Ma da quando fu istituito il Diario giornaliero quello doveva essere portato in Direzione alla fine dell’orario scolastico, e su di esso si discuteva insieme, maestri e medici; ma questi era quasi sempre uno solo e con questo tutti avemmo, nel contatto giornaliero prolungato, più confidenza. Ricordo ancora con piacere quei dialoghi in cui, a poco a poco, filtrò un senso di solidarietà, di amicizia, di tenerezza. […] fui meravigliata e commossa da quella comunanza di idee, di lavoro, di fede, e sentii quanta forza mi dava la intimità e l’amicizia d’una persona superiore, giovane, capace di entusiasmi come i miei, pronto a essermi amico.
La nostra affinità spirituale si mostrava sempre più profonda, la nostra collaborazione intellettuale si faceva sempre più frequente. Il professor Ferrari aveva fondata la “Rivista di psicologia” che in seguito divenne “Rivista di psicologia applicata alla Pedagogia” e incitò tutti noi a collaborarvi: Pennazza, Bentini vi scrissero dei loro sistemi e delle loro esperienze; io feci qualche quadretto delle mie alunne più originali: il dott. Neyroz che annotava ogni giorno le più interessanti manifestazioni dei nostri soggetti non trovava mai tempo per farne un articolo, e il prof. Ferrari, quando la pubblicazione del fascicolo mensile era vicina, andava in quel cassetto, prendeva conoscenza di questo o di quel caso descritto in modo più complesso, e scriveva un brillante articolo che riempiva le pagine ancora vuote della sua Rivista. […]
Un’altra ragione di frequenti contatti fra il dottore e me, ci venne dall’incarico che il prof. Ferrari mi dette di aggiornare le cartelle delle “Femmine”, notando ogni mese statura, peso, stato di salute, accessi avuti, progressi o regressi (purtroppo frequenti specialmente nelle epilettiche), ecc. ecc. di tutte le bambine. […]
Il penoso era andare in infermeria. La capo infermiera, la Maria Giorgi, bella donna, trentenne, simpatica e intelligente […] mi fu sempre di molto aiuto. Ricorse anche a Zabaglioni e tazzine di caffè quando mi vedeva pallida e estenuata dalla fatica; ma resistetti e imparai: due volte sole interruppi il mio lavoro e scappai via lasciando ad altri il compito di finire: quando mi portarono sulle bilance un povero essere, cieca, sorda, muta, la povera (il nome non mi viene) magra, lunga lunga, ripugnante. Eppure viveva, con tatto, gusto e odorato sviluppatissimi: raccontava l’infermiera che all’odore dei cibi distribuiti l’ammalata capiva che era ora di mangiare e alla prima cucchiaiata capiva se era pasta asciutta o minestra in brodo, e ingoiava avidamente la prima e sputava fuori la seconda
L’altra ammalata che mi spaventò più che commuovermi […] era come questa cieca, sorda, naturalmente muta e … ermafrodita. Quella volta scappai in Direzione a chiedere perché … non si poteva passare la povera creatura nell’infermeria Maschile e il prof. Ferrari mi diede una lunga risposta che non mi convinse del tutto. Un’altra volta ero corsa in Direzione a chiedere aiuto e lumi: ero nell’Istituto da pochi giorni quando in un pomeriggio di lunedì (mezza libertà) mentre stavo seduta su di una panchina del bosco, mi si avvicinò un giovanotto elegante e distinto, un certo Carrozzo, ricco e siciliano come il Barone Sciacca, epilettico grave, che aveva perduto tutti i suoi nel terremoto di Messina (anche lo zio Prefetto) e che vivevano nella villa dove abitavano a contatto con la famiglia del proprietario. Il ragazzo (che io avevo conosciuto appunto nel salotto dei Gardini) mi sedette accanto e mi chiese «Ha veduto, signorina, passare poco fa un gatto nero?» Io, ancora incerta come trattare questi malati dall’apparenza sana, dopo un po’ d’esitazione, risposi: «Sì» al che il Carrozzo soggiunse serio e compiaciuto: «Ero io!»
Io scappai di corsa in Direzione: «Professore, il signor Carrozzo è diventato matto!» - Lo è sempre stato – mi rispose calmo il prof. Ferrari!