Nel 1977, ad un anno dalla promulgazione della legge n. 180, scrivendo la prefazione del libro di De Salvia Per una psichiatria alternativa, Gian Franco Minguzzi sente di dover ritornare a ragionare sulla politica di settore e mette in evidenza l'illusorietà dell'esperimento da lui stesso caldeggiato nel 1964.
Secondo Minguzzi il motivo principale del fallimento della politica di settore è che tale progetto non affronta la radice del problema assistenziale-psichiatrico: il manicomio «è sempre lì, appena un po' più aperto, e la psichiatria è sempre controllo della devianza, forse solo un poco più sottile e accurata di prima»1. L'ospedale psichiatrico è accettato «come una necessità, da modificare, da migliorare, ma in definitiva da mantenere; [il settore] non critica le categorie psichiatriche, ma solo il loro uso, la loro organizzazione»2. Con la dizione “politica di settore” - continua Minguzzi – sono stati indicati tutta una serie di operazioni mistificanti, come il collegamento tra ospedali psichiatrici e centri di igiene mentale, o la costituzione di comprensori territoriali macroscopici nei quali qualsiasi possibilità operativa delle équipes risultava vanificata.
In sintesi, il settore è irrimediabilmente legato alla struttura manicomiale sulla quale non ha la forza di incidere in senso distruttivo.
Dunque il “settore” ormai dovrebbe essere superato, morto: e non a causa di una nuova formula organizzativa proposta ancora una volta da un gruppo di tecnici illuminati, bensì perché non regge ad una corretta critica politica, alla verifica dei suoi risultati e al confronto con quel tipo di prassi che De Salvia chiama antimanicomialismo, o meglio, “psichiatria alternativa”.3
Dimessosi da Segretario Nazionale di Psichiatria Democratica, Gian Franco Minguzzi dedica l'ultimo decennio della sua vita all'insegnamento e alla ricerca.
Nel 1975 partecipa a un progetto che vede la collaborazione delle Università di Bologna, Padova, Trieste e dell'Istituto di Psicologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma e porta alla pubblicazione, sul «Giornale italiano di psicologia» del contributo intitolato Per una discussione sulla situazione della psicologia in Italia. Oltre a Minguzzi firmano l'articolo anche Sebastiano Bagnara, Cristiano Castelfranchi, Paolo Legrenzi, Raffaello
Misiti e Domenico Parisi. L'attenzione è incentrata sulla crisi che la psicologia sta attraversano nel periodo preso in analisi. Crisi che, come evidenziano gli autori, non riguarda soltanto il modello comportamentista, la psicologia clinica o la psichiatria, ma si estende in modo omogeneo sulla maggior parte degli orientamenti europei. Le carenze che secondo gli autori sono causa sostanziale della crisi e, oltre a limitare il potere conoscitivo delle teorie elaborate dagli psicologi, riducono e soprattutto distorcono le possibilità di incidenza delle conoscenze psicologiche sulla realtà sociale, si rilevano:
[…] innanzitutto nel trascurare alcune fondamentali dimensioni dell'uomo, del suo comportamento e della sua attività mentale e cioè la dimensione biologico-evoluzionistica, la dimensione antropologico-culturale e infine la dimensione storico-sociale. Teorie adeguate del comportamento umano non possono essere elaborate se di questo comportamento non si esaminano con cura e in dettaglio le basi genetiche comuni a tutta la specie umana e prodotte dalla storia filogenetica di questa specie, le variazioni geografiche e culturali legate alle tradizioni, dei diversi popoli, il reale spessore sociologico ed economico dell'«ambiente» in cui l'individuo cresce, lavora e interagisce con gli altri, e infine il trasformarsi di questo «ambiente», cioè la società, nel tempo, come risultato dello sviluppo dei modi di produzione e delle contraddizioni che tale sviluppo determina.4
Altra carenza fondamentale attribuibile alla psicologia in generale è la «mancata analisi e presa di coscienza dei presupposti ideologici delle varie scuole e teorie […] cioè in sostanza l'assenza di una esplicita analisi critica e politica della psicologia e dei suoi rapporti con la società»5.
Relativamente alla situazione italiana gli autori analizzano i problemi della psicologia attraverso l'analisi della formazione e del ruolo sociale degli psicologi, della crisi delle professioni liberali e del problema dell'organizzazione dei corsi di laurea in psicologia. Il contributo si conclude con la proposta di istituire un'associazione nazionale degli psicologi tale che abbia in primo luogo «una funzione culturale, centrata sui problemi della politica della ricerca e della formazione, e su quelli dello sviluppo, della integrazione e della rilevanza delle scienze dell'uomo» e in secondo luogo si offra «come luogo di scambio e di dibattito di tutti quei momenti di ricerca e di intervento che si articolano nella direzione della prevenzione-progettazione»6
A metà degli anni Ottanta, in qualità di promotore e supervisore, Gian Franco Minguzzi conduce assieme a Franco Basaglia e Giulio Alfredo Maccacaro il progetto del Consiglio Nazionale delle Ricerche Medicina preventiva e riabilitativa, incentrato sull'epidemiologia e la prevenzione delle malattie mentali e sull'indagine del trattamenti psicoterapeutici. A quest'ultimo tema Minguzzi dedica il suo ultimo volume, Il divano e la panca. Psicoterapia tra privato e pubblico, edito da Franco Angeli nel 1986. L'indagine, condotta nell'area bolognese negli anni 1983-1984 attraverso interviste a psicoterapeuti sia operanti nei servizi pubblici sia in quelli privati, ha cercato di rispondere a interrogativi quali la definizione della figura dello psicoterapeuta e del rapporto che può intercorrere tra il dolore e il lavoro psicoterapeutico. Una riflessione particolare è dedicata alle nuove forme di intervento psicologico praticate nei servizi pubblici, di cui – afferma Minguzzi - è necessario tener conto quando si ragiona sulla complessa questione della formazione degli psicoterapeuti. Il problema dell'efficacia dei trattamenti e delle esigue ricerche sperimentali che li certificano (in contrapposizione alle moltissime tecniche di intervento esistenti) viene preso in considerazione anche nell'articolo È possibile valutare i risultati della psicoterapia?, pubblicato lo stesso anno sul «Giornale italiano di psicologia».
Nel 1978 Minguzzi pubblica, sul «Giornale italiano di psicologia», il saggio
Continuiamo a discutere di cognitivismo, in linea con la sua volontà di creare un tessuto culturale favorevole all'analisi teorica sistematica che lui stima sempre più necessaria. Partendo da alcune considerazioni relative agli articoli di Paolo Bozzi e Domenico Parisi, usciti nel secondo numero della rivista, a proposito del metodo sperimentale, Minguzzi finisce per muovere una critica ai fondamenti stessi del cognitivismo, in quanto le stesse istanze su cui esso si fonda (costruzione, ciclo, schema) costituiscono più l'elaborazione di modelli che di fondamenti teorici. Facendo costante riferimento all'opera di Ulrich Neisser, Cognition and reality (1976), in cui l'autore, scegliendo di trattare gli aspetti teorici volutamente evitati nei testi precedenti, arriva a mettere in luce molti difetti del cognitivismo e giunge a sconfessare buona parte delle sue precedenti affermazioni, Minguzzi chiarifica la sua opinione:
Il cognitivismo, quello che conosciamo fino ad oggi, o è semplicemente lo studio delle attività cognitive (percezione, memoria, pensiero, linguaggio), ma allora sono cognitivisti pure Wundt, Piaget, Skinner; oppure è tecnica di ricerca senza respiro teorico, cosicché quando un cognitivista indubbiamente intelligente qual'é Neisser affronta i problemi teorici è costretto a ricorrere a concetti già formulati prima di lui, da studiosi che non hanno mai detto di essere cognitivisti.7
Minguzzi mette in evidenza la difficoltà di definire che cosa sia il cognitivismo per una serie di motivazioni: gli studiosi non sono un gruppo omogeneo che è possibile identificare come scuola, l'approccio non si basa su una teoria comune, ma al contrario «ostenta un certo distacco nei confronti della teoresi, prediligendo i micromodelli, cioè le ipotesi esplicative di singoli fenomeni, a portata molto limitata»8, e manca di una teoria originale, di un vero cambiamento di oggetto di studio (rispetto ad esempio al comportamentismo cui vuole contrapporsi) nonché dell'invenzione di un nuovo metodo.
Ammenoché non si prenda per buona l'ipotesi avanzata da Vicario, cioè il passaggio dal modello energetico a quello informatico […], a me sembra poter concludere che il cognitivismo rappresenta “la continuazione” e “il livello più avanzato e più maturo” non già del gestaltismo, come afferma Flores d'Arcais, bensì del comportamentismo.9
Nel 1986, mentre ancora si sta occupando della redazione de Il divano e la panca, Minguzzi comincia a ideare e organizzare assieme a Nicoletta Caramelli un convegno sull'eredità della psicologia della Gestalt.
Minguzzi pensò […] che fosse maturo il tempo per una nuova riflessione volta, non tanto a rintracciare quanto sopravvivesse ancora della vecchia teoria della gestalt, ma piuttosto ad indagare sui suoi eventuali sviluppi e ad individuare sotto quali forme le sue principali idee si ripresentano nella teorizzazione e nella ricerca contemporanea. In altre parole egli era convinto che valesse la pena di esaminare come viene gestita oggi l'eredità che indubbiamente la gestalt ci ha tramandato.10
Il convegno, che ha luogo nel febbraio del 1987 al Dipartimento di Psicologia di Bologna, è organizzato in tre parti distinte: la prima affronta le prospettive storiche e metodologiche, la seconda l'evoluzione e lo stato attuale dei temi gestaltisti e l'ultima tratta delle tracce gestaltiste nei principali settori della psicologia. Paolo Bozzi, Paolo Legrenzi, Domenico Parisi, Riccardo Luccio e Luciano Mecacci sono solo alcuni degli studiosi che presentano le loro relazioni. I risultati dell'incontro saranno pubblicati l'anno seguente da Nicoletta Caramelli e Gaetano Kanisza nel libro L'eredità della Gestalt, che Minguzzi tuttavia non avrà modo di leggere.
Già da tempo colpito da una malattia incurabile, Gian Franco Minguzzi muore il 19 marzo 1987. Il collega e amico Antonio Santucci, professore nello stesso ateneo di Storia della filosofia, così lo ricorda nei suoi ultimi giorni in Gian Franco Minguzzi e la «ricerca irrilevante»11:
Nessuno degli amici e degli scolari poteva arrendersi al declino delle sue forze, tale era la sua presenza nei progetti di ricerca e nelle scelte didattiche; e ricordo bene come si dicesse pronto, appena conclusi i lavori del convegno sulla psicologia della forma, a discutere con me i risultati e le novità teoriche.
Alice Graziadei
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NOTE
1Cfr. G. F. Minguzzi (a cura di), Prefazione, in D. De Salvia, Per una psichiatria alternativa, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 7-15.
2Ibidem.
3Ibidem.
4Cfr. G. F. Minguzzi (e al.), Per una discussione sulla situazione della psicologia in Italia, in «Giornale italiano di psicologia», n. 2, 1975, 295.
5Ivi, p. 296.
6Ivi, p. 320.
7Cfr. G. F. Minguzzi, Continuiamo a discutere di cognitivismo, in «Giornale italiano di psicologia», n. 3, dicembre 1978, pp. 463-464.
8Ivi, p. 462.
9Ibidem
10Cfr. N. Caramelli, G. Kanizsa, L'eredità della psicologia della gestalt, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 8.
11 Cfr. Santucci, A. (2004). Gian Franco Minguzzi e la «ricerca irrilevante», in Ricerche sul pensiero italiano tra Ottocento e Novecento, CLUEB: Bologna.