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L’organizzazione del servizio neuropsichiatrico di guerra

Polemica Brugia-Tamburini a parte, la questione dell’assistenza psichiatrica dei soldati al campo andava non solo realisticamente, ma anche – come acutamente osservò Giulio Cesare Ferrari nelle pagine della sua Rivista di psicologia tecnicamente considerato1. Non solo, cioè, l’assistenza andava apprestata perché, usando le parole dello psichiatra Arturo Morselli, «fra i belligeranti si sviluppano con grandissima frequenza e con impressionante violenza e rapidità molte malattie mentali e nervose»2, ma occorreva predisporre una rete di servizi che tenesse conto sia della particolare natura dei disturbi che colpivano i soldati (forme morbose che Tamburini definirà «realmente miste»3, presentanti cioè allo stesso tempo fenomeni nervosi e psichici, come le psico-nevrosi acute, i casi di isteria, nevrastenia, afasia, mutismo, stupori acuti ecc.), sia dei diversi “livelli”, o luoghi, d’intervento medico (punti di soccorso e prime cure nelle zone di combattimento, presidi più lontani ove trasportare i feriti più gravi ecc.). Dunque, i servizi avrebbero dovuto essere neuro-psichiatrici ed essere organizzati in una sorta di rete capillare e multi-livello.
Come detto, il regista di tale organizzazione fu Augusto Tamburini, all’epoca presidente della Società freniatrica italiana e nominato, nel giugno 1916, consulente psichiatrico del ministero della Guerra.

a) Nelle zone di combattimento vennero creati appositi reparti neuropsichiatrici presso gli ospedali da campo. Arturo Morselli, uno dei quattro consulenti psichiatri che Tamburini aveva preposto alle armate, creò e diresse il primo esempio di tale struttura, ospitante 25 letti, e così descrive l’attività che qui veniva svolta: «Ammesso nel Reparto degli Ospedali 032-037, ogni infermo è sottoposto a bagno militare di pulizia (doccia calda, insaponatura) e a disinfezione degli indumenti: la doccia viene ripetuta quasi ogni giorno da tutti. Le cure praticate, oltre all’isolamento, alla sorveglianza diurna e notturna, ai soliti rimedi farmacologici (sedativi, stimolanti), al buon regime dietetico, sono specialmente la balneo-idroterapia, la elettro-terapia e la psicoterapia, quest’ultima intesa ed applicata sotto tutte le sue forme, di suggestione, di persuasione, di ipnotismo. Largo uso si fece del continuato riposo in letto: abolito quasi fu l’uso della camera (cella) di assoluto isolamento; giovò assai, nei casi di «mutismo» (isterogeno) la faradizzazione con rullo o con doppio elettrodo sui fasci vascolo-nervosi al collo o alle mastoidi, ma specialmente la rieducazione alla parola. Aggiungo che spesso il Reparto ha servito per la osservazione e definizione dei casi simulati, ché anche di questi ebbi a vederne e a disgelarne non pochi!»4.
In seguito anche Vincenzo Bianchi e Placido Consiglio daranno vita a soluzioni originali, quali i «Villaggetti psichiatrici», con capacità di 50-100 letti ciascuno, creati rispettivamente nelle zone Carnia e Cadore. Infine, Giacomo Pighini, consulente della IV armata, istituì al fronte due reparti: uno centrale in un ospedale di riserva, e uno sussidiario in un ospedale da campo.
Tutti questi reparti avevano dunque il compito di prestare i primi soccorsi e fungevano anche da luoghi di smistamento verso le strutture più interne, lontane dalle zone di guerra, dove i soldati avrebbero potuto riposare e recuperare la salute qualora il breve soggiorno negli ospedali da campo non fosse risultato sufficiente.

b) Nelle zone interne furono allestiti i reparti psichiatrici e neurologici delle zone territoriali. Come Tamburini ebbe a precisare, tali reparti dovevano essere specializzati (non più misti: ecco perché sono psichiatrici e neurologici), accogliendo i ricoverandi secondo la natura della malattia, e separando, per quanto possibile, i neuropatici dagli psicopatici.
Il trasporto dei militari dalle zone di guerra ai presidi territoriali aveva luogo mediante i cosiddetti “treni sanitari”. I neuropatici con affezioni del sistema nervoso centrale e periferico sarebbero stati destinati a veri e propri centri neurologici, mentre i cosiddetti «neuropatici funzionali», e cioè i soldati affetti dalle varie forme di nevrosi traumatiche e isteriche, avrebbero trovato accoglimento presso reparti più propriamente psichiatrici allestiti presso cliniche e padiglioni o quartieri speciali dei manicomi. Qui sarebbero confluiti anche gli psicopatici, ma con l’ovvia raccomandazione di tenere gli uni il più possibile separati dagli altri.

Quella dell’invio dei militari in manicomio appare fin da subito una vera e propria questione, dal punto di vista sia teorico che pratico. Anche se i soldati non venivano internati a norma di legge ma inviati dall’autorità militare in semplice osservazione, una certa ritrosia veniva mostrata dalla più parte degli psichiatri italiani, soprattutto degli stessi direttori di manicomio, dinnanzi a tale possibilità. Si presentavano dunque una questione pratica – tanti nuovi arrivi avrebbero messo a repentaglio il regolare funzionamento degli ospedali psichiatrici, già privati del personale richiamato sotto le armi –, e una questione teorica: era ammissibile che i militari, eroici e valorosi combattenti, venissero inviati nel luogo che, di norma, ospitava “pazzi” e “imbecilli”? Pur se tenuti in sezioni o padiglioni separati (ipotesi, peraltro, non praticabile in tutti i manicomi), non avrebbero corso il rischio di essere comunque danneggiati – quando non contagiati – dagli altri ospiti? E infine, «come si potrebbe ammettere che un ufficiale uscito dal manicomio riprendesse subito dopo il proprio elevatissimo ufficio?»5, si chiedeva, ben sintetizzando la questione, lo psichiatra e psicologo Giulio Cesare Ferrari.
In ogni caso, le ritrosie scomparvero davanti all’urgenza pratica: le strutture militari si rivelarono ovunque insufficienti, e pertanto il ricorso ai manicomi si rese indispensabile6 (ci si affrettò comunque a prevedere per legge un periodo di osservazione più lungo – 3 mesi anziché 30 giorni – per i militari inviati al manicomio, al fine di evitarne il più possibile l’internamento definitivo).
Analogamente, anche rispetto alla questione dell’assistenza femminile nei reparti maschili dei manicomi le ritrosie teoriche scomparvero davanti alla necessità pratica: per sopperire alla mancanza dei colleghi uomini richiamati sotto le armi, in molti ospedali psichiatrici il personale infermieristico femminile dovette prestare servizio anche nei reparti maschili (ipotesi, prima di allora, giudicata inammissibile), e l’”esperimento” diede ovunque ottimi risultati. Come sottolineato dal Giornale di psichiatria clinica e tecnica manicomiale di Ferrara che raccoglieva e pubblicava le impressioni di numerosi direttori di manicomio, «le notizie che finora ci sono giunte sono di confortevole appoggio ai propugnatori di tale sistema di assistenza», e soprattutto «le preoccupazioni di indole sessuale, che potrebbero far nascere dubbi, cadono di fronte alla pratica»7.

Riassumendo. I soldati che impazzivano al fronte potevano contare su una rete di servizi neuropsichiatrici che fu organizzata sotto la direzione di Augusto Tamburini, consulente psichiatra del ministero della Guerra. Numerosi presidi sanitari furono preposti ad accogliere i militari, sia nelle zone di combattimento sia nelle zone più lontane. Apprestare le prime cure, rigenerare per rimandare velocemente al fronte, scovare i soldati amorali, i simulatori e gli esageratori di disturbi nervosi e mentali: queste le funzioni principali di neurologi e psichiatri durante la Grande Guerra, che fu un’eccezionale occasione di studio: «in genere i quadri da me veduti non corrispondono che in minima parte a quelli descritti dai trattatisti e conosciuti dagli alienisti di manicomio – affermava lo psichiatra Morselli –: si tratta di una Neuro-psicopatologia affatto particolare»8.

Elisa Montanari

1 Cfr. la rubrica «Note e documenti della guerra» in Rivista di psicologia, 1915, p. 294.

2 A. Morselli, «Il reparto neuro-psichiatrico dell’ospedale da campo di 100 letti 032 (III armata)», in Quaderni di psichiatria, vol. II-1915, p. 389.

3 A. Tamburini, « L’organizzazione del servizio neuro-psichiatrico di guerra nel nostro Esercito», in Rivista sperimentale di freniatria, 1916, p. 178.

4 A. Morselli, (cit.) p. 392.

5 Cfr. la rubrica «Note e documenti della guerra», in Rivista di psicologia, 1915, p. 295

6 Va detto che Augusto Tamburini auspicava la creazione di appositi manicomi militari, ma questi non furono mai realizzati; cfr. A. Tamburini, «L’organizzazione del servizio neuro-psichiatrico di guerra nel nostro Esercito» (cit.), p. 181

7 Cfr. «L’Assistenza femminile nei reparti maschili dei manicomi», in Giornale di psichiatria clinica e tecnica manicomiale, 1917-18, p. XLVIJ

8 A. Morselli, (cit.), p. 392