RISME Ricerca Idee Salute Mentale Emilia-Romagna

L’istituzione del servizio neuropsichiatrico di guerra: una polemica iniziale

Poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia avvenuta nel maggio del 1915, si rese immediatamente evidente la necessità di creare un vero e proprio servizio neuropsichiatrico di guerra: un servizio, cioè, da organizzare appositamente per soccorrere i «militari alienati», i soldati che riportavano danni psichici e/o al sistema nervoso durante la permanenza al fronte.

Sulle pagine del Bollettino dell’Associazione tra i Medici dei Manicomi pubblici italiani il Presidente Raffaele Brugia, che è anche direttore del manicomio di Bologna, pubblica dapprima due lettere, entrambe datate 12 luglio 1915 e indirizzate ai colleghi alienisti: la prima per sollecitarli a «sottoscrivere il nuovo prestito nazionale per le spese di guerra»; la seconda per proporre loro «il rilascio mensile dell’uno per cento sui nostri stipendi netti» al fine di «soccorrere le famiglie che la guerra ha danneggiato e ridotte in povertà». Nel numero successivo – siamo nell’agosto del ’15 – viene poi pubblicato, a firma della Redazione, un articolo piuttosto polemico riguardante le misure fino a quel momento adottate per far fronte all’emergenza psichiatrica di guerra. Ciò che viene lamentato è soprattutto l’utilizzo scarso e sbagliato dei medici dei manicomi: questi – sostiene la Redazione –, pur non essendo «buoni chirurghi», potrebbero comunque «sollevare gli spiriti» facendo «una vera e propria psicoterapia d’occasione» che serva a fronteggiare i «traumi morali» che la guerra sovente produce accanto ai traumi materiali. Se l’opera degli alienisti fosse utilizzata a dovere – viene poi affermato – si potrebbe evitare l’invio dei militari al manicomio civile, «un luogo che non è loro adatto e da cui possono attingere nuovo danno morale». L’articolo si chiude con una battuta sarcastica su quella che viene presentata come l’unica misura apprestata fino a quel momento per l’assistenza psichiatrica di guerra, ossia l’istituzione dei «consulenti psichiatrici»: questi, che «sono cinque in tutto, uno per ogni armata, sono costretti a compiere percorsi che alle volte superano i cinquecento chilometri e perciò potrebbero meglio essere chiamati corrieri automobilisti psichiatri». Viene infine sottolineato che «la funzione loro è molto enigmatica e il risultato pratico altrettanto incerto».

Il destinatario di questo attacco polemico non poteva che essere Augusto Tamburini, allora Presidente della Società Freniatrica Italiana e, come tale, responsabile dell’organizzazione psichiatrica di guerra. La sua risposta non tarda ad arrivare: in una lettera del 10 ottobre 1915 indirizzata a Raffaele Brugia e pubblicata sulla Rivista sperimentale di Freniatria, Tamburini, pur riconoscendo che tanto lavoro vi era ancora da fare, precisava che la collaborazione tra l’Autorità Sanitaria Militare e la Società Freniatrica aveva già cominciato a dare i suoi frutti, essendo presenti al fronte non solo i quattro [e non cinque] consulenti psichiatri presso le Direzioni di Sanità delle Armate (Arturo Morselli alla 1°, Vincenzo Bianchi alla 2°, Angelo Alberti alla 3°, Giacomo Pighini alla 4°), ma anche i numerosi medici dei manicomi che, lasciati gli ospedali psichiatrici civili, si sono recati sotto le armi «per l’osservazione e prima cura dei casi acuti (forme psicotraumatiche)». In aggiunta si stavano istituendo alcuni «Reparti psichiatrici per l’osservazione di casi specialmente acuti nelle zone delle rispettive Armate» che comprendessero anche «semplici luoghi di riposo per i semplici, e rapidamente guaribili, traumatizzati psichici», nonché delle Sezioni speciali per militari presso le cliniche e i manicomi civili – «che a quest’ora sono già non meno di 20», afferma Tamburini, il quale nel concludere la lettera non dimentica di ricordare a Brugia che a sensibilizzare l’Autorità Sanitaria Militare riguardo la necessità d’istituire il servizio psichiatrico di guerra era stata proprio la Società Freniatrica, «per opera della sua Presidenza e dei suoi membri più provetti»[e il riferimento è qui a Bianchi e Morselli].

La risposta di Tamburini viene pubblicata anche sulle pagine dell’ultimo numero del 1915 del Bollettino dell’Associazione tra i Medici dei Manicomi pubblici italiani, ma di nuovo il commento che ne accompagna la pubblicazione è polemico: nonostante quanto dichiarato – si legge –, «persiste il fatto che nei manicomi comuni, anche i più lontani, arrivano continuamente malati o confusi o neuro-traumatizzati, il che vuol dire che l’ufficio di smistamento o non funziona o funziona male».

Il battibecco tra Brugia e Tamburini termina con questo commento. Ne arriverà eco sul primo numero del ’16 della rivista Quaderni di psichiatria1, ma a partire da quell’anno il Bollettino non ospiterà più articoli polemici riguardanti il servizio psichiatrico di guerra; Tamburini, dal canto suo, viene nominato consulente psichiatra del ministero della Guerra nel giugno del 1916.

La polemica, i cui toni, più ancora dei contenuti, appaiono poco giustificati, sembra reggersi su una questione fondamentale. Che i militari “impazziti” o traumatizzati siano inviati ai manicomi civili: ecco il rimprovero, che è anche una preoccupazione, di Raffaele Brugia e dell’associazione da lui presieduta a chi organizza e gestisce il servizio psichiatrico di guerra.

Come si vedrà meglio più avanti [vedi: movimento degli internati (1915-1918)], a giudicare dal numero non elevato di militari ricoverati all’ospedale «Roncati» di Bologna da lui diretto, sembra che Brugia sia stato, per così dire, accontentato: forse grazie, più che altro, alla vicinanza di alcuni presidi maggiormente “assorbenti”: prima di tutti, la Clinica universitaria per le malattie mentali e nervose, costruita proprio in quegli anni in zona adiacente al manicomio e nel ’15 subito requisita dalle autorità militari ad uso ospedale per i soldati che provenivano dal fronte2. Poco distanti si trovavano anche il centro neurologico militare «Pascoli» diretto da Vincenzo Neri, e la succursale imolese del manicomio di Bologna diretta da Giulio Cesare Ferrari. Pur se animati da interessi e metodi diametralmente opposti, Neri e Ferrari vedono nei soldati che giungono dal fronte una straordinaria occasione di studio sperimentale nel campo rispettivamente della neurologia e della psicologia.

Elisa Montanari

1 Mi riferisco all’articolo Organizzazione dei servizi neuro-psichiatrici per i belligeranti che riporta alcuni stralci delle lettere di Brugia e Tamburini «a confutare alcune critiche, per dir vero non poco inopportune e premature, alla organizzazione dei Servizi neuro-psichiatrici istituiti dal nostro Ispettorato di Sanità Militare»; cfr. la rubrica Notiziario dei «Quaderni di psichiatria», gennaio-febbraio 1916, pp. 36-7.

2 Cfr. L’Università di Bologna nel passato e nel presente, Bologna, Zanichelli, 1919, pp. 153-4; Giornale di psichiatria clinica e tecnica manicomiale, 1917-18, p. XXXI.