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L'Ospedale degli Esposti

L’ospedale degli Esposti o dei Bastardini fu costruito a Bologna nel 13simo secolo per dare una risposta concreta al fenomeno molto diffuso dei neonati abbandonati, ovvero “esposti” in luoghi aperti, a rischio di vita a causa delle intemperie e degli attacchi degli animali. Nel 1641 il fenomeno doveva aver raggiunto livelli elevati visto che venne pubblicato un bando sottoscritto dal Vescovo, dal Cardinale Legato e dal Confaloniere di Giustizia, con cui si vietava di abbandonare i bambini, pena aspre punizioni corporali o la condanna a morte nei casi più gravi, e si ordinava la consegna all’ospedale più vicino.

Dopo vari passaggi di gestione a varie istituzioni religiose e assistenziali nella prima metà del '900 l’Ospedale degli Esposti trovò una sede definitiva in via D’Azeglio 41 a Bologna e assunse la denominazione di Brefotrofio dei Bambini Esposti. Successivamente venne affiancato da un Asilo di Maternità per l’assistenza alle donne gravide. Divenne quindi non solo luogo ricovero per gli “esposti” ma anche un centro per l’assistenza alle madri.

Nel 1940 la gestione dell’ospedale e dell’asilo annesso passò direttamente all’Amministrazione Provinciale col nome di I.P.I.M. ovvero Istituto Provinciale per l’Infanzia e la Maternità. Verranno di seguito descritte le modalità di accesso all’Ospedale e la vita degli ospiti.

La vita all’interno del Brefotrofio dei bambini esposti

Le madri che ricorrevano al brefotrofio erano in genere molto giovani e provenivano da contesti connotati da arretratezza e povertà. A quell’epoca le donne rimaste incinte all’interno di rapporti ritenuti “irregolari” o non definite da un matrimonio venivano etichettate dall’opinione pubblica, e spesso anche dalla famiglia, come donne di facili costumi. Nel contesto culturale appena descritto, le donne in questa situazione non avevano altra alternativa che consegnare il bambino al brefotrofio, anche se questa era una scelta dolorosissima.

Le levatrici avevano il compito di seguire i casi di gravidanze illegittime, spesso d’accordo con genitori e parenti e di denunciarli agli ospedali. Contestualmente l’economo dell’ospedale riceveva un’“elemosina” di 25 lire come rimborso forfettario per le spese da sostenere.

Spettava inoltre alla levatrice, accompagnata da due persone che fungevano da testimoni, denunciare la nascita del bambino allo stato civile del comune, fornendo il nome e la data di nascita. La madre che non voleva riconoscere il bambino, veniva identificata come “donna che non desidera essere nominata”.

Alcuni bambini consegnati venivano affidati per l’allattamento a balie esterne all’ospedale, che venivano retribuite. Altri invece venivano allattati nel “baliatico”: un apposito reparto dell’Ospedale, spesso assai affollato, dove si trovavano tutte le donne deputate all’allattamento dei bambini. Rispetto al baliatico, l’affidamento ad una balia esterna spesso garantiva al bambino cure più adeguate vista anche la facilità con cui le malattie infettive potevano entrare e diffondersi nell’ospedale. Infatti la mortalità infantile in quei tempi era piuttosto alta.

Finita la fase di allattamento i bambini restavano nell’ospedale in attesa di qualcuno disposto a prendersi cura di loro. Alcuni venivano adottati definitivamente, ma la maggior parte tra gli 8 e 10 anni veniva data in affidamento per essere avviati a lavori manuali spesso in ambito agricolo. Accadeva anche che alcuni bambini affidati o adottati fossero riportati all’ospedale qualora le aspettative e soprattutto gli interessi della famiglia non venissero esauditi o a seguito di conflitti. Si verificavano casi di bambini riportati all’ospedale anche cinque o più volte. È facile immaginare quanto una vita segnata da abbandoni ripetuti fosse traumatica per un bambino.

Se da una parte l’Ospedale degli Esposti offriva ai bimbi sufficienti condizioni di vita (cibo e cure mediche) dall’altra venivano riportate 1 gravi carenze dal punto di vista emotivo e affettivo che interferivano sullo sviluppo fisico e psichico. Inoltre all’interno dell’ospedale non erano disponibili per i bambini relazioni affettive che potessero compensare l’assenza di figure genitoriali.

La scuola nell’Ospedale degli Esposti era gestita dalle suore presenti all’interno ed era valida dal punto di vista didattico, ma limitata agli insegnamenti di lingua italiana, matematica, religione ed educazione e per nulla attenta ad educare e familiarizzare il bambino con il “mondo esterno” e con le relazioni interpersonali.

Per quanto riguarda le bambine l’Ospedale garantiva un’assistenza economica che durava negli anni fino al matrimonio o alla monacazione. In concomitanza di questi eventi veniva anche fornita una dote che consisteva in una modesta somma di denaro. Le ragazze venivano anche istruite presso il Conservatorio, ovvero una sezione dell’ospedale adibita a fornire un’istruzione di base e alcune competenze lavorative in ambito manifatturiero (ad es. cucito) per le quali ricevevano anche un compenso minimo. Alle ragazze ritenute più dotate e motivate venivano anche impartire lezioni di musica e canto. Altre venivano richieste da alcune famiglie per svolgere mansioni domestiche.

La ruota e il medagliere

In un arco di tempo che va dal 1570 al 1870 circa, le coppie che pur essendo sposate non potevano prendersi cura del nascituro, spesso per motivi economici, ricorrevano alla “ruota”.

La ruota, la cui presenza è stata rilevata già nel 500 2, doveva consistere presumibilmente in un cilindro di legno con un piano, dotato di un’apertura e fornito di due perni che gli consentivano di girare su se stesso. Era posta accanto al portone d’ingresso dell’Ospedale. Facendo girare la ruota il bambino veniva introdotto in una stanza dell’Ospedale e quindi prelevato dal custode senza che si potesse individuare chi l’avesse portato. Questa pratica consentiva il totale anonimato dei genitori.

 

Dato che, affidando il bambino all’ospedale tramite la ruota, i genitori non avevano alcun documento che potesse identificare il figlio, spesso la madre lasciava tra le fasce del bambino un oggetto tagliato a metà: una metà restava alla famiglia ed una metà al bambino. Veniva talvolta unito un piccolo foglio con il nome e la data di nascita del bambino.

Questa usanza era l’unico espediente per un eventuale riconoscimento e ricongiungimento futuro. Fra gli oggetti più frequenti conservati dall’ospedale in un apposito medagliere, attualmente ancora visionabile dai visitatori e di forte impatto emotivo, figuravamo monete, orecchini, collanine, monili, immagini sacre, crocifissi e fotografie.

L’intervento del Centro Medico Sociale di Psicologia Applicata

Gli anni 50 e 60 del dopoguerra sono caratterizzati da una particolare attenzione alla maternità, all’infanzia e all’istituzionalizzazione prolungata. Numerosi studiosi in tutto il mondo, tra cui lo psicoanalista Renè Spitz, posero l’attenzione sul fenomeno. Nel 1950 l'Organizzazione Mondiale della Sanità(OMS) commissionò al noto psicoanalista John Bowlby, una ricerca su bambini senza famiglia. Il risultato fu un articolo intitolato “Maternal Care and Mental Health” (1951) in cui Bowlby affermava che gli istituti non potevano fornire ai bambini ospitati rapporti significativi che garantissero un adeguato sviluppo fisico, cognitivo ed emotivo e che si rendeva necessario un impegno concreto a livello di politiche sociali per supportare le donne e le famiglie impossibilitate a prendersi cura dei propri figli.

Anche a Bologna nel 1963 fu organizzato un convegno sull’assistenza ai cosiddetti figli illegittimi che impegnò varie categorie tra cui amministratori, psicologi, pediatri, pedagogisti, giuristi per giungere alla conclusione che il fine essenziale a cui tendere era la conservazione della coppia madre-figlio per l’importanza dello sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino, focalizzando l’attenzione non solo sul bambino ma anche sulle necessità della madre.

Sull’onda di un clima scientifico e culturale che stava cambiando il brefotrofio di Bologna, che era stato oggetto di numerose osservazioni e critiche, cercò di ovviare al disagio che la rottura della diade madre-figlio comportava, sperimentando gruppi famiglia di quattro o cinque bambini con una vice madre e con una conduzione in stile familiare. Per perseguire tali obiettivi la Provincia di Bologna chiese al Centro Medico Sociale di Psicologia Applicata (C.M.S.P.A.) diretto dal Prof. Canestrari, la presenza di esperti per la formazione di donne che poi avrebbero lavorato a stretto contatto con i bambini. Il progetto venne diretto dal prof. Marino Bosinelli e coordinato dalla dott.ssa Grilli che aveva anche il compito di osservare e valutare le condizioni di vita dei bambini risiedenti nell’Istituto. Dalle osservazioni preliminari emerse che la situazione dei bambini all’interno del brefotrofio non era conforme alle linee guida tracciate dalle ricerche scientifiche più recenti. Sebbene gli esperti ritenessero opportuno ridefinire le pratiche consolidate nella gestione dei bambini, tuttavia apparve evidente la difficoltà nell’apportare un cambiamento significativo nel breve termine.

In questa fase di rinnovamento uno degli obiettivi condivisi più importanti era mettere le madri nubili in condizioni psicologiche, culturali ed economiche tali da evitare situazioni di rottura del rapporto madre – figlio. Per raggiungere tale obiettivo venne avviata a Bologna una fase di potenziamento dei servizi sociali. Nel 1969 viene inaugurato il primo asilo nido, al quale le madri potevano affidare il figlio durante l’orario di lavoro. Inoltre venne aumentato considerevolmente il sussidio economico per le neo madri nubili in difficoltà.

Si verificò che le madri furono in questo modo naturalmente incentivate a tenere il proprio figlio. Questo portò a una progressiva diminuzione di bambini affidati al brefotrofio, fino all’ “estinzione totale di questo istituto medioevale più dannoso che salutare” (Mario Cennamo)

Gabriella Rizzardi e Luigi De Donno

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NOTE:

1 Si fa riferimento alla testimonianza di Giorgio Sirgi (1994) I bastardini: figli di donne che non vollero essere nominate. Gruppo di studi alta valle del Reno, Porretta Terme.

2 Per maggiori dettagli è possibile consultare il testo I bastardini: patrimonio e memoria di un ospedale bolognese. Amministrazione provinciale di Bologna, Assessorato alla cultura (1990).