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L'esperienza del Pilastro

Tra le attività intraprese dal C.M.S.P.A., dopo l’inizio della collaborazione con l’Università, è particolarmente significativo il lavoro svolto dall’ équipe del Centro a partire dall’ottobre 1969 nel quartiere “Pilastro”, collocato nella periferia nord-est di Bologna.

L’area su cui fu costruito l’ampio quartiere di alloggi popolari era originariamente costituita da terreni agricoli estesi per 40 ettari, di proprietà dell’Istituto Autonomo Case Popolari (IACP).

Dopo che il terreno venne decretato edificabile, fu ultimato il primo lotto di alloggi popolari e il primo luglio 1966 si inaugurò il villaggio del Pilastro alla presenza del sindaco Fanti, il presidente della provincia Vighi, del cardinale Giacomo Lercaro e alcuni rappresentanti del Governo. Nel progetto iniziale il villaggio veniva concepito non come un semplice prolungamento della periferia, ma come un centro autonomo e autosufficiente, ispirato ai borghi medievali. Tuttavia al termine della costruzione del primo lotto di case il quartiere si presentava privo di tutte quelle infrastrutture indispensabili alla vita della comunità come scuole, negozi, mezzi di trasporto e strutture di pubblica amministrazione in generale. Col procedere dei lavori si andava evidenziando l’isolamento del quartiere, “tagliato fuori” dalla città tanto da essere da molti definito “isola di cemento armato collegata da un ponte”.

Nel 1968 queste criticità portarono a precise richieste del Comitato Inquilini Villaggio Pilastro e l’Assessore all’edilizia economica popolare Pierluigi Cervellati si assunse il compito di dare al progetto iniziale una connotazione meno negativa realizzando negli anni successivi un fabbricato di forma circolare “il virgolone” che si inseriva tra le abitazioni isolate e che avrebbe anche favorito una maggiore interazione tra gli abitanti.

Il Comitato Inquilini sorto ad opera di Oscar De Paoli e Luigi Spina era formato da rappresentanti degli inquilini che si erano assunti il compito di affrontare le gravi difficoltà emerse. Molto attivi anche politicamente portarono i problemi del quartiere all’attenzione del Comune e delle istituzioni della città riuscendo ad ottenere buoni risultati.

Il Comitato si dimostrò indispensabile nel lavoro svolto dall’équipe del C.M.S.P.A. che dal 1969 fu chiamato dal Comune ad occuparsi dei gravi problemi a livello scolastico, sociale e delle richieste di supporto avanzate dagli operatori scolastici.

L’équipe era formata da Alberta Corsino, Pino Giovannelli, Raffaello Nardella e Gabriella Rizzardi.

Fin dall’inizio del lavoro il Comitato Inquilini si mostrò disponibile a collaborare attivamente con gli operatori del C.M.S.P.A. presentando e informando il quartiere circa le attività inerenti al progetto, permettendo agli operatori di superare la diffidenza e conquistare la fiducia degli abitanti dentro e fuori dalla scuola.

La collaborazione con la scuola per la realizzazione di obiettivi comuni si dimostrò proficua. Sin dai primi anni del quartiere i dirigenti scolastici dovettero affrontare richieste di trasferimento degli insegnanti che di fatto comportavano una variazione annuale del corpo docente.

Questo fenomeno appariva determinato da diversi fattori: la presenza di un’alta percentuale di bambini con difficoltà sia a livello intellettivo che comportamentale; scarso interesse e partecipazione delle famiglie; un’organizzazione scolastica inefficiente nel rendere omogenee le attività condotte nell’orario scolastico e nel dopo scuola. Da subito apparve chiaro che la possibilità di realizzare un intervento efficace avrebbe prima richiesto una conoscenza obiettiva e organica del quartiere in tutti i suoi aspetti.

Le scelte operative infatti non potevano limitarsi solo ad un intervento psicometrico e diagnostico rispetto ai “casi difficili” segnalati, senza riuscire a coinvolgere anche genitori e insegnanti. Occorreva dunque progettare un intervento su più livelli e che avesse delle ricadute positive non solo sulla scuola, ma anche sulla vita degli abitanti del quartiere.

La prima fase del progetto fu dunque volta ad individuare e studiare le variabili maggiormente influenti sul contesto sociale del quartiere.

La raccolta di dati circa le caratteristiche socio-economiche e culturali delle famiglie del villaggio (provenienza, età, scolarità, occupazione, atteggiamenti prevalenti nei confronti del villaggio, valori condivisi, ecc.) venne effettuata mediante la somministrazione di un’intervista strutturata. Da questa analisi emerse che le famiglie provenivano in larga misura dal sud Italia, in minor numero dal basso Polesine e alcune dal territorio bolognese e dalla Libia.

Gli appartamenti risultavano ben costruiti e attrezzati, ma spesso avevano un numero di vani insufficiente rispetto al numero di familiari che via via andava aumentando. Il livello di istruzione dei genitori variava principalmente dall’analfabetizzazione alla licenza elementare e la figura professionale più diffusa era l’operaio. Rispetto ai figli, la massima parte aveva lasciato la scuola appena superata l’età dell’obbligo per entrare nel mondo del lavoro.

Per quanto riguarda l’ambito scolastico le principali problematiche emerse erano: scarsità e inadeguatezza delle aule; alta mobilità del corpo insegnate e insufficiente dotazione di materiali didattici. Inoltre il difficile contesto precedentemente descritto determinava per gli insegnanti chiamati a lavorare al Pilastro notevoli difficoltà nella gestione della classe e nell’attività didattica, con gravi ripercussioni sul clima della classe e sui processi di apprendimento.

Questa situazione era causa di forti disagi anche nel dopo scuola: a periodi alterni i bambini erano costretti a spostarsi presso altre scuole dentro e fuori il quartiere. Inoltre asili nido e scuole secondarie erano assenti.

Le condizioni igienico-sanitarie degli alunni delle scuole elementari vennero valutate dal medico scolastico dott. Diego Brescia, diventato un vero e proprio punto di riferimento per il villaggio grazie al suo grande impegno. Furono esaminati in particolare le patologie fisiche e gli aspetti legati alla nutrizione. Da questa analisi emerse la necessità di favorire e promuovere contatti tra il contesto scolastico - familiare e i medici di base, con particolare attenzione alla prevenzione delle malattie più gravi.

Inoltre dall’indagine emerse che la nutrizione dei ragazzi era in molti casi carente sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. In particolare pochi bambini consumavano la colazione prima di andare a scuola. La restante parte degli alunni non consumava alcun pasto o faceva una colazione a base di alimenti fritti, ad esempio patatine e crescentine. La colazione fornita dalla scuola consisteva in un bicchiere di latte alle ore 10, a cui i bambini aggiungevano di solito una merenda portata da casa. Tutti i bambini usufruivano della refezione scolastica alle ore 12.30 che per molti rappresentava l’unica fonte di cibo ben equilibrato. Infatti, dai dati dell’indagine, anche la cena risultava essere scarsamente organizzata e calibrata. Venne inoltre rilevato il consumo di vino da parte dei minori durante i pasti a casa.

Nel corso di questa fase esplorativa l’équipe rilevò che la percezione di emarginazione riportata dagli abitanti andava oltre la posizione e l’architettura del quartiere, ma era dovuta anche alla cattiva fama del villaggio presso l’opinione pubblica bolognese. Fenomeni di delinquenza come piccoli furti, scorribande notturne e atti di vandalismo avevano fatto sì che il Pilastro diventasse specialmente per i mass media sinonimo di povertà, ignoranza e delinquenza tanto da essere soprannominato il villaggio del disastro.

E’ piuttosto sintomatico il fatto che molti abitanti del Pilastro camuffassero la reale residenza, anche quando erano convocati per un colloquio di lavoro. Erano inoltre presenti fenomeni di discriminazione all’interno del quartiere stesso, soprattutto nei confronti degli abitanti provenienti dalle regioni del sud Italia.

Interventi nel contesto familiare

Per stimolare una partecipazione più attiva delle famiglie alla vita scolastica vennero effettuati periodicamente incontri e assemblee pubbliche sia con i familiari che con gli insegnanti di tutte le classi. Nel caso di bambini con particolari difficoltà gli operatori e gli insegnanti predisponevano momenti di incontro e confronto con la famiglia.

Un intervento più centrato sul contesto familiare venne svolto dall’assistente sociale dell’équipe Alberta Corsino. Tramite visite domiciliari l’assistente sociale effettuava valutazioni circa la situazione familiare degli alunni ritenuti più problematici, attivando i servizi sociali qualora fosse stato necessario. I Servizi Sociali e il Poliambulatorio presente nel quartiere avevano una funzione importante e collaboravano efficacemente con l’équipe. Anche la collaborazione della Parrocchia, sotto la guida di don Silvano, fu molto utile nell’offrire ai ragazzi spazi e attività quali cineforum, spettacoli teatrali, musica e attività sportive. Altre opportunità per i ragazzi venivano offerte dalla “Fattoria”, un’esperienza rurale inserita nel contesto urbano, sorta per iniziativa dei primi residenti, per offrire attività ricreative, sportive e culturali volte ad avvicinare la popolazione del Pilastro agli altri residenti nel territorio bolognese.

Interventi nelle scuole

La prima fase esplorativa aveva fornito agli operatori del C.M.S.P.A. numerose ipotesi di intervento. Tra queste furono state scelte quelle che riguardavano le problematiche più urgenti e di primaria importanza, realizzabili con i mezzi a disposizione e nei tempi previsti dal progetto.

Per quanto riguarda la scuola materna furono programmate e realizzate due iniziative.

1. Un’indagine psicosociale sui bambini frequentanti l’ultimo anno della scuola materna con l’obiettivo di facilitare il passaggio alla scuola elementare.

Dal mese di maggio gli psicometristi dell’équipe somministrarono a tutti i bambini un test (INP – 64 del C.N.R.) che consentiva di analizzare in tempi brevi fattori percettivi e spaziali, capacità di astrazione, di ragionamento analogico, di apprendimento e comprensione delle consegne. La valutazione veniva completata da una prova di disegno libero con la quale rilevare alcuni aspetti legati all’area emotivo-relazionale ed eventualmente valutare la necessità di ulteriori approfondimenti.

Alla fine dell’anno scolastico le insegnanti della scuola materna, seguendo un protocollo di osservazione concordato con l’équipe, stilarono un profilo di ogni bambino. Le aree di interesse riguardavano i rapporti con la famiglia, il comportamento motorio e verbale, l’area emotivo - relazionale, la presenza di eventuali tic, enuresi e disturbi del linguaggio, della vista, dell’udito.

L’obiettivo era capire quali fossero i bambini bisognosi di interventi specifici e metterli in condizione di ricevere le dovute attenzioni nelle varie classi.

I dati raccolti furono utilizzati per formare, in accordo con i docenti, le prime classi elementari. Oltre ad essere stati informati sui criteri adottati, gli insegnanti furono coinvolti nella discussione dei casi più complessi.

2. Psicomotricità. L’altro intervento, all’epoca innovativo, fu progettato per prevenire e limitare, intervenendo tempestivamente a partire dalla scuola materna, i disturbi della psicomotricità. Per psicomotricità si intende l’insieme delle dottrine e pratiche terapeutiche che riguardano la reciproca integrazione delle funzioni psichiche con quelle motorie nel corso dello sviluppo. Il costrutto teorico sul quale si basava l’intervento evidenziava che il disadattamento scolastico, dovuto a difficoltà specifiche nell’apprendimento della lettura e della scrittura, può essere evitato se affrontato precocemente in età prescolare.

Attraverso test psicodiagnostici venivano individuati i casi maggiormente a rischio; successivamente venivano messi in atto interventi riabilitativi in forma di esercizi-gioco che interessavano principalmente gli schemi corporei, la motricità, l’organizzazione spazio-temporale e la grafo-motricità.

Uno degli obiettivi era inserire gli esercizi-gioco all’interno della routine coinvolgendo e formando anche i docenti. Spesso i frutti di questi interventi erano evidenti soprattutto al momento dell’ingresso dei bambini nella scuola elementare.

3. La classe aperta. Nelle scuole elementari l’équipe del C.M.S.P.A. avviò un processo di trasformazione prima e di abolizione poi delle classi differenziali, programmando una nuova sperimentazione pedagogica nelle prime classi elementari: la classe aperta.

Nella Classe differenziale classica i bambini venivano “emarginati” dato che si configurava come un gruppo a sé, in un’aula separata dal resto della scuola. Invece l’assetto della classe aperta si configurò fin dall’inizio come luogo in cui dovevano convergere gli alunni bisognosi di specifici interventi educativi. I bambini di fatto continuavano ad essere iscritti sul registro della classe di origine, mantenendo un rapporto con insegnante e compagni. Il gruppo della classe aperta si doveva configurare quindi come un gruppo non stabile ma variante in rapporto ai bisogni circoscritti in alcuni settori dell’apprendimento. Anche la figura dell’insegnante veniva riconfigurata da unico protagonista dell’atto educativo a figura in grado di modellare il proprio comportamento e cogliere le proprie emozioni in funzione degli atteggiamenti degli alunni.

Nella prima fase del progetto l’équipe lavorò per creare un clima di consenso e collaborazione con gli operatori scolastici che sarebbero poi stati impegnati nella realizzazione.

Perciò nel corso del primo anno (1969-70) vennero esaminati con la metodologia del C.M.S.P.A. i bambini segnalati dagli insegnanti per difficoltà di adattamento e apprendimento scolastico. In seguito a questa valutazione vennero formate due prime classi, una di otto elementi e una di dieci, con i bambini che avrebbero potuto incontrare maggiori difficoltà nel corso dell’anno scolastico. Contemporaneamente venne impostato un lavoro di gruppo che comprendeva l’équipe e gli insegnanti delle varie classi interessate per definire una comune linea di intervento con la prospettiva di reinserire l’alunno nella classe di provenienza. Questo lavoro di gruppo preludeva alla trasformazione della classe differenziale in una “classe aperta di recupero”.

Il gruppo della classe aperta si configurava non come un gruppo stabile ma variabile, dedicato al recupero di bambini che evidenziavano la necessità di un insegnamento maggiormente individualizzato.

Nonostante una fase di progettazione contraddistinta dalle perplessità di alcune insegnanti rispetto a competenze e metodi da utilizzare in questi gruppi, col procedere dei lavori si venne a creare in massima parte un clima di comprensione e collaborazione che portò alla proficua creazione e gestione della classe nell’anno successivo.

L’esperimento della classe aperta voleva avere principalmente funzione di “rottura”: combattere all’interno della scuola l’emarginazione dei cosiddetti “casi problematici”.

A partire da queste premesse è opportuno anche riportare la presenza di inevitabili difficoltà imputabili sia a fattori estrinseci (numero di operatori insufficiente, esigenza di maggior spazio e tempo, scarsa collaborazione di alcuni genitori e insegnanti) che intrinseci alla sperimentazione stessa. Infatti una ricerca sistematica e puntuale di fattori specifici (disturbi del linguaggio, difficoltà nell’orientamento spaziale ecc.) correlati alle difficoltà di apprendimento fu possibile solo in minima parte. Inoltre la maggior parte degli alunni presi in esame presentava difficoltà riconducibili in gran parte all’ambiente socio-culturale di provenienza e alle criticità del villaggio evidenziate precedentemente.

Di fatto alcuni bambini hanno sostato quasi tutto l’anno nella classe aperta, con il rischio che questa andasse a sostituire la classe di origine. L’apprendimento individualizzato nella classe aperta, che in una prima analisi poteva far pensare alla classe differenziale, offrì però il grande vantaggio di un’assistenza più diretta e qualificata che veniva spesso integrata con attività ludiche e di gruppo in comune con la classe di origine. Questi fattori hanno fatto si che l’esperienza ottenesse complessivamente risultati positivi. I risultati furono evidenti nelle prove di scrutinio, sostenute nelle classi di origine. Globalmente gli studenti dimostrarono di aver superato le difficoltà iniziali, colmando molte lacune ed essendo pronti a proseguire gli studi nella classe “normale”.

Questa esperienza ebbe come sfondo un processo di abolizione delle classi differenziali e scuole speciali già in corso, volto a contrastare la discriminazione ed emarginazione dei bambini e può essere considerata uno dei primi esperimenti di transizione dalla classe differenziale alla classe di tutti.

Il progetto fornì anche utili indicazioni sull’importanza della formazione dell’insegnante di sostegno e degli insegnati della scuola primaria e secondaria di primo grado sui fattori implicati nell’apprendimento del linguaggio e della scrittura.

Alla fine del lavoro venne evidenziata l’importanza di promuovere momenti di incontro e confronto fra insegnanti della scuola elementare e del dopo scuola, per definire e adottare programmi educativi condivisi e per garantire all’alunno un percorso scolastico più armonico e soddisfacente. Risultò fondamentale il coinvolgimento attivo dei genitori nell’affrontare i bisogni educativi ed emotivi degli alunni, soprattutto quelli con disabilità e collaborare attivamente con le figure operanti nell’ambito della scuola e della salute mentale. Questa esperienza dimostrò che quando ciò avviene si riducono i fenomeni di disadattamento.

L’esperienza dell’equipe al Pilastro mostrò alle famiglie che ne sentivano il bisogno, l’utilità di un sostegno psicologico. Infatti al termine del lavoro di ricerca e intervento alcuni genitori espressero il desiderio di restare in contatto con l’équipe.

Gabriella Rizzardi e Luigi De Donno

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