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Il reparto alienati del Sant’Orsola

Se la presenza di alcuni individui folli era già registrata in alcune piccole realtà assistenziali di fine Cinquecento, a Bologna l’ingresso dei “fuor di cervello” nell’istituzione medica avviene ufficialmente nel 1710, quando si costituisce il primo reparto alienati – piccolo nucleo di un vero e proprio manicomio – in un’area appositamente costruita dell’ospedale cittadino S. Orsola. Se si esclude un breve periodo iniziale, la lunga storia del reparto (durata oltre 150 anni) sarà caratterizzata da vivaci polemiche sulle pessime condizioni di vita dei ricoverati dovute a sempre maggiori carenze strutturali. Il primo a denunciarne l’inadeguatezza sarà Domenico Gualandi, direttore delle Sale Dementi dal 1819 al 1860; continuerà il successore Benedetto Monti, in carica per soli tre anni; ma bisognerà attendere l’ingresso sulla scena di Francesco Roncati per porre fine allo “scandalo” S. Orsola. Sullo sfondo, le riforme politiche e amministrative di un’Italia appena unificata.

 

La premessa alla cura: le istituzioni di carità del XVI e XVII secolo

Analogamente a molte città degli altri stati italiani ed europei, anche per Bologna il XVI e il XVII secolo sono caratterizzati da un crescente interesse istituzionale verso le condizioni di vita della popolazione povera. Animate da quello spirito contemporaneamente filantropico e repressivo che da sempre le caratterizza, nella seconda metà del Cinquecento molte misure vengono prese per far fronte al gran numero di affamati, mendicanti e infermi che popolano la città. A dare il via, nel 1560, è l’approvazione di papa Pio IV alla fondazione dell’Opera dei poveri mendicanti, che, tre anni più tardi, istituisce il primo ricovero di mendicità in Italia.

Dal punto di vista assistenziale alla fine del Cinquecento Bologna è così organizzata:

  • nella casa di S. Gregorio vengono ospitate “le putte, le donne miserabili e a castigo”;
  • nella casa di dentro (poi della Pietà) sono mantenuti “i mendici maschi, i putti e i vagabondi”;
  • nel S. Orsola (detto anche Spedale degli Incurabili) vengono ricoverati gli infermi, sotto la cura di due medici, “uno fisico e l’altro chirurgo”.

In tutti questi luoghi i matti si trovano mescolati agli altri miserabili; e se è pur vero che nella casa della Pietà ci sono “luoghi appartati per i pazzerelli”, occorre aspettare il XVIII secolo per assistere alla separazione definitiva tra miseria e follia.

 

L’istituzione di cura del XVIII secolo: una fabbrica per i diseredati del pensiero

A tutt’oggi, Bologna non sa chi ringraziare per la generosa – nonché scientifica – iniziativa: risulta infatti al merito di un benefattore anonimo la proposta fatta all’Opera dei poveri mendicanti (istanza registrata il 10 luglio 1710) di fabbricare a sue spese un edificio per ricoverare specificamente i folli. Il benefattore voleva che tale edificio sorgesse vicino all’Ospedale di S. Orsola, affinché i matti potessero ricevere “più regolare sollievo” dai medici ospedalieri. Accogliendo con favore l’istanza presentata, qualche mese più tardi l’Opera decide di acquisire il terreno necessario a dare inizio ai lavori di costruzione della fabbrica, di fatto un ampliamento dell’ospedale esistente (registrazione del 28 novembre 1710). Così i “diseredati del pensiero” vengono condotti al S. Orsola e affidati alle cure del dottor Antonio Maria Valsalva, allievo di Marcello Malpighi, dando vita al primo nucleo di un vero e proprio manicomio.

“Mentre tutti in quel tempo erano spietati coi poveri mentecatti, egli solo, il grande imolese, quando i pazzi vennero posti nel suo spedale, si mostrò subito contrario a qualunque crudeltà, e volle spezzate le secolari catene, che avevano fino allora stretto i polsi di quegl’infelici”(1). Così viene ricordato Valsalva, che, insieme ai suoi collaboratori Domenico Pasi e Lorenzo Bonazzoli, anticipa di quasi un secolo i metodi non violenti che saranno utilizzati da Chiarugi a Firenze e da Pinel e Daquin in Francia. Grande attenzione viene rivolta alle modalità di utilizzo della contenzione fisica: questa deve essere praticata il meno possibile, solo in casi di estrema necessità, e con “legami robusti” ma né troppo stretti, né troppo duri, da imbottire con panno morbido o tela di lino. Purtroppo questi metodi saranno una breve parentesi, destinata a terminare insieme a chi l’ha voluta e praticata: morti Valsalva, Pasi e Bonazzoli, i pazzi vengono nuovamente legati con pesanti catene di ferro.

Il S. Orsola, però, può ospitare pochi malati: nel 1748 i ricoverati sono 16, metà uomini e metà donne, nel 1764 18 in tutto. Molti sono costretti a rimanere per strada. Inizia così una vera e propria gara di solidarietà per aumentare il numero dei camerini per gli alienati: grazie al progressivo ampliamento, nel 1793 il numero dei ricoverati sale a 90. È un periodo, questo, in cui si assiste ad una sorta di conflitto tra i vertici dell’Opera e l’autorità politica della città. I primi, gravati del mantenimento dei pazzi poveri, vogliono impedire che il numero dei ricoverati cresca a dismisura, evitando in particolar modo i ricoveri impropri: per questo già nel 1764 avevano decretato la necessità di un certificato medico prima e del benestare dell’Opera poi per l’ammissione al reparto alienati. La seconda, invece, preoccupata più che altro di garantire l’ordine pubblico della città, rivendica il diritto di far rinchiudere subito qualunque pazzo, mantenendolo a sue spese se povero. E così avviene.

Il reparto alienati del S. Orsola viene poi diretto da: Giovanni Antonio Galli (1756-1772), Domenico Borghi (dal ’72 al ’79), Gaspare Gentili (1779-1807), e Gaetano Gandolfi (1809-1819). In accordo con la tradizione medica del tempo, le cure che essi utilizzano più comunemente sono salassi, purganti e vescicanti, oppio, mercurio e bagni freddi; ma nessuno di loro lascerà scritti o studi particolari sulla pazzia.
Sarà solamente Domenico Gualandi ad occuparsi in maniera speciale dell’alienazione mentale.

 

Domenico Gualandi: le prime denunce

Domenico Gualandi diventa direttore delle Sale dei Dementi nel 1819 ed è il primo vero e proprio psichiatra bolognese. Il suo interesse scientifico per la follia lo porta da un lato a produrre numerosi scritti, dall’altro a ricercare un rapporto causa-effetto tra forma del cranio e malattia mentale: per tali ricerche Gualandi costruisce appositamente uno speciale craniometro. Durante la sua gestione, egli recupera quanto Valsalva aveva raccomandato a proposito delle contenzioni fisiche, riproponendone quindi un uso limitatissimo e non degradante, e vietando espressamente i mezzi generali di repressione. Ma Gualandi non si ferma a questo. Nel 1823 dà alle stampe un cospicuo rendiconto sulla organizzazione di alcuni ospedali per matti presenti nel territorio italiano: l’obiettivo è proporre suggerimenti per migliorarne le condizioni. Tra gli ospedali descritti, anche il “suo” S. Orsola, il cui reparto alienati può contenere fino a 130 ricoverati ed è separato dal resto dell’ospedale con opportuna chiusura.

Gualandi sottolinea che quello di Bologna non è un semplice asilo: i pazzi sono curati quotidianamente con trattamento medico-chirurgico, associato – compatibilmente con i mezzi disponibili – al trattamento morale. Vengono poi elencate le carenze strutturali del reparto: locali insufficienti e ristretti; impossibilità di creare spazi differenziati e quindi continua promiscuità; ambienti bui, umidi, mal ventilati; mancanza di “mezzi di divagamento e distrazione” per i malati che dispongono tutt’al più di due prati non molto grandi per passeggiare quando possibile.

Quella di Gualandi del 1823 è la prima denuncia dell’inadeguatezza del reparto alienati di S. Orsola, alla quale seguirà, ventisei anni più tardi, il suo progetto di costruzione di un manicomio pubblico, dissertazione che leggerà presso l’Accademia delle Scienze di Bologna. La necessità di provvedere ad una diversa sistemazione degli alienati è tanto più urgente quanto il numero dei ricoverati cresce continuamente: si passa dagli 81 nel 1819 ai 174 nel 1845, per arrivare ai 248 ricoverati nel 1855, quasi raddoppiando la capienza massima prevista. Estendendo la denuncia all’intero territorio italiano ed esortando i colleghi alienisti sparsi su tutto il territorio italiano a costituirsi in associazione, Gualandi si fa anche portavoce della necessità di una legge specifica per gli alienati che garantisca manicomi adeguati alle loro esigenze. Purtroppo, le grida di Gualandi resteranno inascoltate per parecchi anni: a Bologna il suo progetto non verrà mai realizzato e si riparlerà di un nuovo manicomio solo dopo il 1860; la prima società degli alienisti italiani si costituirà nel 1874; e per la legge sugli alienati occorrerà attendere fino al 1904.

 

Benedetto Monti: lo scontro tra potere amministrativo e potere medico

Il 1860 è un anno importante per l’organizzazione della sanità bolognese: il 10 marzo il governatore dell’Emilia Luigi Carlo Farini emana un decreto ispirato al principio che spetta allo Stato, nel quadro di una determinata politica sanitaria, dettare le norme generali in materia di ordinamenti ospedalieri e tutelare la salute pubblica. Si pongono dunque le basi per la risoluzione di alcune problematiche amministrative e organizzative che riguardano gli ospedali bolognesi, e in particolare l’ospedale dei matti. Il decreto Farini, infatti, attribuisce dapprima la gestione dell’intero corpo ospedali ad un unico centro amministrativo e di sorveglianza, composto da professionisti di nomina governativa; introduce poi l’obbligo per Comune e Provincia di intervenire economicamente in caso di perdita nei resoconti annuali e per le spese di nuovo impianto e di adattamenti in caso di insufficienza dei patrimoni ospedalieri; ma soprattutto viene sancito che verrà tolto il manicomio dall’ospedale di S. Orsola e si provvederà alla custodia e cura dei pazzi attraverso un manicomio generale per la provincia di Bologna.

Ecco dunque la prima occasione giuridica per migliorare l’assistenza psichiatrica bolognese, alla quale si affianca, nel dicembre dello stesso anno, quella scientifica rappresentata dall’istituzione presso il manicomio della clinica universitaria per le malattie mentali. La direzione della clinica viene affidata a Benedetto Monti, già professore di igiene pubblica e medicina legale nell’Università di Bologna, il quale, nel 1861, assume anche la direzione del reparto alienati, subentrando a Gualandi messo a riposo.

Nonostante le premesse lusinghiere, Benedetto Monti non ha vita facile nella gestione degli incarichi ottenuti: è soprattutto nella direzione del manicomio che il professore trova frequenti occasioni di scontro con il potere amministrativo, ovvero la deputazione provinciale. Innanzitutto, quest’ultima chiede a Monti di esercitare gratuitamente le sue funzioni dovendo l’amministrazione continuare a pagare lo stipendio, a titolo di pensione, al vecchio direttore Gualandi. C’è poi un problema più generale e profondo: Monti, forte della sua competenza medico-scientifica, vorrebbe che gli venisse concessa maggiore autonomia nelle scelte che riguardano l’organizzazione manicomiale, mentre il Corpo provinciale a sua volta rivendica il diritto di incidere su tali decisioni sostenendone la competenza politica e, soprattutto, economica. Si tratta, come è stato scritto, “del problema di fondo dell’esercizio dell’autorità”(2), in un momento – l’Unità d’Italia – in cui la nascente comunità degli psichiatri vuole acquisire maggiore autorevolezza e prestigio. Le dispute tra Monti e la deputazione riguardano tantissimi aspetti: dal personale interno (scelta, riconoscimento delle doti e delle qualifiche, numero necessario e attribuzioni di ogni infermiere e inserviente) alla organizzazione dei servizi e degli spazi; persino le modalità di raccolta dei dati statistici, nonché i metodi di cura e custodia, diventano oggetto di discussione. In questo clima, dopo appena due anni dalla nomina, Monti viene destituito dall’incarico di medico primario. Intanto il numero dei ricoverati ha superato quota 300, e del nuovo manicomio ancora nessuna traccia.

 

Francesco Roncati: gli ultimi anni del S. Orsola

 

A proposito della costruzione del nuovo manicomio, è stato scritto (3) che tutti erano d’accordo sul fatto che la questione dovesse esser risolta, ma che la difficoltà consisteva essenzialmente nel come. Il reparto del S. Orsola andava chiuso: per sovraffollamento, per le precarie condizioni igienico-sanitarie, e anche perché così era sancito dal decreto Farini. Il Consiglio provinciale aveva affidato all’ingegnere genovese Ignazio Gardella l’incarico di presentare un progetto completo per la realizzazione del nuovo manicomio. Tuttavia, quando questo era stato presentato (il 12 marzo 1863), tutti erano rimasti atterriti e imbarazzati a causa dell’enorme cifra preventivata: la spesa ammontava a ben 1.300.000 lire. Il Consiglio, sapendo di non avere disponibilità sufficienti, aveva preso tempo.

Intanto, licenziato Monti, nel 1864 viene nominato direttore e medico primario del reparto alienati il giovanissimo professor Francesco Roncati; appena due anni più tardi, viene promulgata una legge nazionale, la n. 3036 del 7 luglio 1866, che prevedendo la possibilità di utilizzare gli edifici di conventi soppressi per utilizzi di pubblica utilità, rappresenta la seconda occasione giuridica per cambiare le sorti della psichiatria bolognese: Roncati si rivela l’uomo giusto per il cambiamento. Ottenuta l’alleanza di Francesco Rizzoli – allora Presidente della Facoltà di Medicina e della Amministrazione degli Ospedali di Bologna, nonché membro del Consiglio provinciale –, Roncati si mostra abile nel saper sfruttare a suo vantaggio l’occasione che finalmente porrà fine al reparto alienati del S. Orsola: lo scoppio, nel 1867, di un’epidemia di colera tra gli internati.

 

Documenti

 

NOTE

1. Alfredo Alvisi, L’antico ospedale dei pazzi in Bologna, Bologna, Tipografia Fava e Garagnani, 1881, pag. 13.

2. Ferruccio Giacanelli, Katia Bellagamba Toschi, Maria Augusta Nicoli, “La costituzione del manicomio di Bologna: 1860-1870”, in Sanità, scienza e storia, Milano, Franco Angeli, n. 1/1985, p. 23

3. Eugenio Dall’Osso, “La costituzione in Bologna dell’Ospedale Psichiatrico «Roncati»”, in Bullettino delle scienze mediche, Bologna, anno 1956, pp. 207-239.

 

 

elisa montanari